La schiavitù nella Bibbia

Se ho negato i diritti del mio schiavo e della schiava in lite con me, cosa farò, quando Dio si alzerà, e quando mi chiederà conto, cosa risponderò? Chi ha fatto me nel seno materno, non ha fatto forse anche lui? Non fu lo stesso Dio a formarci nel grembo? (Giobbe 31:13-15).

schiavitù

La sezione della Torah dedicata alle norme che regolano la società si apre con le leggi relative all’eved ivrì, il servo ebreo. Questa priorità ha un suo significato preciso: per un popolo di schiavi, divenuto libero da poco tempo, è essenziale fondare la propria identità di nazione sulla dolorosa esperienza del passato. E così gli Israeliti, prima di ogni altra cosa, devono sapere come comportarsi con gli schiavi.

La Torah condanna l’ingiustizia dell’oppressione a cui erano soggetti gli Ebrei in Egitto, eppure non comanda al popolo di abolire del tutto la schiavitù, ma solo di limitarla e di gestirla secondo un’etica sconosciuta alle nazioni vicine.

Prima della rivoluzione industriale, soprattutto nelle società basate sull’agricoltura, la schiavitù ricopriva un’enorme importanza nell’economia, al punto che la mancanza di schiavi poteva mettere a rischio la sopravvivenza di intere popolazioni. Inoltre, per le moltitudini di famiglie povere incapaci di provvedere ai propri bisogni più elementari, la possibilità di mettersi al servizio di un padrone appariva spesso l’unica via per scampare alla fame. All’interno di questo contesto storico, ciò che la Torah stabilisce è una forma di schiavitù molto diversa da quella a cui siamo abituati a pensare, priva dei suoi aspetti inumani e degradanti.

In moltissime occasioni la Torah comanda di aiutare i poveri, e stabilisce vari mezzi e metodi concreti per adempiere questo precetto: non solo la semplice carità, ma anche l’assegnazione delle decime dei raccolti e dei residui della mietitura, il divieto di effettuare prestiti con interessi e lo scarso rigore imposto ai creditori nei confronti degli indigenti. Tutte queste misure hanno anche lo scopo di rendere la schiavitù non necessaria, se non in casi estremi.

Nell’Ebraismo esistono tre categorie di avadim (schiavi, o servi), che è necessario prendere in esame separatamente, considerando tuttavia che da circa duemila anni nessuna di esse è mai uscita da una dimensione puramente teorica.

Il servo ebreo

Un eved ivrì può essere un Ebreo che ha compiuto un furto e non ha di che restituire, e che viene perciò venduto dal Tribunale ad una famiglia benestante affinché intraprenda un percorso di riabilitazione e possa saldare i suoi debiti; oppure, in un altro caso, si tratta di un Ebreo che vive in una condizione di gravissima povertà e non è in grado di autogestirsi economicamente. In entrambe le situazioni parliamo di casi controllati e amministrati dalla Legge, non di schiavi divenuti tali per costrizione; la Torah infatti proibisce espressamente di rapire un essere umano e di venderlo (vedi Esodo 21:16).

La schiavitù ammessa dalla Torah per Israele, al contrario di quella praticata dagli altri popoli, non è una condizione permanente, ma ha un limite di tempo ben definito: “Se acquisti un eved ivrì, egli ti servirà per sei anni, ma al settimo se ne andrà libero, senza pagare nulla” (Esodo 21:2).
Esistono però anche dei casi in cui il servo si rifiuta di andare in libertà:

“Ma se il servo fa questa dichiarazione: «Io amo il mio padrone, mia moglie e i miei figli, non voglio andarmene libero», allora il suo padrone lo farà comparire davanti ai giudici, lo farà accostare alla porta e allo stipite; poi il suo padrone gli forerà l’orecchio con un punteruolo ed egli lo servirà per sempre” (Esodo 21:5-6).

I Maestri si chiedono quale motivazione simbolica si nasconda dietro questo rito. Il Talmud (Kiddushin 22b) spiega, a nome di Rabban Yochanan Ben Zakkai: “L’orecchio che ascoltò sul Monte Sinai le parole: «I figli di Israele sono miei servi», e nonostante questo ha scelto di essere soggetto a un padrone, dovrà essere forato”.

Un confronto con le leggi esistenti nel Medio Oriente antico risulta illuminante: il codice di Hammurabi si conclude con l’ordine di recidere l’orecchio a uno schiavo che osa rifiutare l’autorità del suo padrone; al contrario, la prima sezione delle leggi civili della Bibbia impone di forare l’orecchio allo schiavo che non riconosce il valore della libertà.

Non solo il settimo anno porta a termine la schiavitù, ma anche il settimo giorno, lo Shabbat, garantisce a tutti gli schiavi un completo riposo settimanale: “Osserva il giorno di Shabbat per santificarlo, come Hashem, il tuo Dio, ti ha comandato. […] Non farai in esso alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia né il tuo servo né la tua serva […] affinché il tuo servo e la tua serva si riposino come te (Deuteronomio 5:12-14).
Questo precetto rappresenta una grande rivoluzione morale nella concezione della schiavitù e dimostra quanto la Torah sia in opposizione allo sfruttamento degli esseri umani.

La Bibbia accorda agli schiavi diritti certamente inimmaginabili nelle altre culture. Se il padrone picchia il suo schiavo causandogli danni permanenti, quest’ultimo diviene automaticamente libero (Esodo 21:26-27). Se lo schiavo viene ucciso dal padrone o da chiunque altro, il colpevole deve essere processato per omicidio (Esodo 21:20). Secondo il codice di Hammurabi e altre antiche raccolte di leggi, il padrone può invece compiere qualsiasi abuso nei confronti dei suoi schiavi senza temere alcuna punizione.
Basandosi sul divieto biblico di trattare i servi ebrei con asprezza (vedi Levitico 25:42-43), i Maestri affermano che l’eved ivrì deve mangiare lo stesso cibo del suo padrone, godere delle stesse comodità e risiedere nello stesso tipo di abitazione. Inoltre non è permesso fargli compiere lavori umilianti, poiché il servo può svolgere solo la professione che esercitava quando era libero. Alla luce di tutti questi obblighi, il Talmud dichiara: “Chi acquista uno schiavo acquista un padrone” (Kiddushin 20a).

La servitù femminile

“Se un uomo vende la propria figlia per essere serva, ella non se ne andrà come se ne vanno gli schiavi. Se ella non sarà gradita al suo padrone, che se l’era presa per sé, egli la lascerà riscattare; ma non avrà il diritto di venderla a gente straniera, perché in questo modo la tratterebbe con inganno. E se la darà in sposa a suo figlio, si comporterà con lei come con una figlia. Se prenderà un’altra moglie, egli non diminuirà il suo cibo, il suo vestiario e la sua coabitazione. Se non fa per lei queste tre cose, ella se ne andrà in libertà, senza pagamento di prezzo” (Esodo 21:11).

Il brano biblico appena citato, dal punto di vista di un lettore moderno, può facilmente apparire scandaloso e offensivo nei confronti della dignità femminile. Uno studio più approfondito, alla luce del contesto storico, dimostra invece l’esatto contrario. Lo scopo di queste disposizioni legali è infatti quello di tutelare la donna dagli abusi che erano ampiamente concessi secondo le antiche legislazioni.

Ciò che la Torah descrive non è una situazione ideale o un modello positivo, ma una circostanza spiacevole che necessita di essere regolata affinché sia posto un limite alle prevaricazioni maschili.Vendere la propria figlia è un’azione disonorevole, che tuttavia in alcuni casi poteva rappresentare l’ultima speranza di una famiglia estremamente bisognosa. I Maestri spiegano che una scelta simile può essere compiuta solo da un padre che ha già venduto tutti i suoi beni e i suoi possedimenti, e che nonostante questo non è in grado di provvedere alle necessità della figlia (vedi Kiddushin 20a). Di fatto, l’unico caso concreto in cui nella Bibbia si parla di persone che vendettero le proprie figlie come serve si trova nel Libro di Nehemia (capitolo 5), dove viene descritta una condizione economica disastrosa. In tale circostanza, Nehemia, il governatore della Terra d’Israele, mostra una grande indignazione ed esorta i magistrati a condonare i debiti dei poveri (vedi Nehemia 5:6-12).

Una figlia venduta come serva, secondo la Torah, non può essere ingannata o venduta ad altri. Può invece essere riscattata in qualsiasi momento, e andare in libertà nel caso in cui i suoi diritti non vengano rispettati. Se il figlio del padrone di casa decide di sposarla, ella acquisisce tutti i diritti di una moglie, e il padrone dovrà trattarla esattamente come una figlia. In questo modo, una bambina che rischiava di morire di fame nella casa paterna, ottiene l’opportunità di entrare a far parte di una famiglia benestante dove nessuno potrà maltrattarla, e di contrarre un matrimonio che sconvolge i parametri consueti imposti della divisione delle classi sociali.

Lo schiavo cananeo

Eved kena’ani, cioè “schiavo cananeo” è un termine che la Legge ebraica applica a qualsiasi schiavo proveniente da altre nazioni. Mentre l’eved ivrì, come abbiamo visto, otteneva automaticamente la libertà al settimo anno (o nell’anno del Giubileo), l’eved kena’ani era soggetto invece alla schiavitù perpetua (Levitico 25:46).

Rav Hirsch, nel suo Commentario alla Torah, spiega tale differenza in questi termini:
“Nessun Ebreo può rendere schiavo un altro essere umano, ma gli è permesso soltanto acquistare delle persone che, secondo la legge internazionale universalmente accettata, erano già considerate schiave. Questa transizione sotto la proprietà di un Ebreo rappresentava la sola e unica salvezza per coloro che, secondo la legge delle nazioni, erano marchiati come schiavi”.

Dunque la Torah, che proibisce la schiavitù perpetua agli Israeliti, riconosce lo status che le “leggi internazionali” riservavano agli schiavi. Ciò significa che queste disposizioni non sarebbero più applicabili oggi, poiché la schiavitù è stata da tempo abolita, almeno come istituzione ufficiale.

Rav Hirsch sottolinea come l’eventuale acquisto di un eved kena’ani da parte di un Ebreo portasse grandi vantaggi allo schiavo, il quale, mentre negli altri paesi era stato trattato come il peggiore degli animali, in Israele godeva invece di propri diritti e della tutela della Legge.
Una spiegazione simile è riportata anche da R. Ben-Zion Meir Hai Uziel:

“L’acquisto degli schiavi stranieri era concesso solo nel caso di coloro che erano già stati venduti dai loro fratelli [pagani] sotto determinate condizioni. Inoltre, non era permesso sfruttare i loro corpi; al contrario, se lo schiavo subiva un danno ad un organo, come un occhio o un dente, egli doveva essere lasciato in libertà. Da ciò si comprende che l’acquisto di uno schiavo cananeo era permesso dalla Torah proprio per il bene dello schiavo, affinché potesse salvarsi dai suoi fratelli Cananei e non fosse trattato con crudeltà o sfruttato fino al punto di morire” ( Mikhmannei Uziel, Tel Aviv, 1939).

Come il servo ebreo, anche quello cananeo è tutelato nei casi di maltrattamenti fisici o di omicidio (Esodo 21:26-27; 21:20). Inoltre, il riposo settimanale dello Shabbat vale per qualsiasi schiavo o lavoratore senza distinzioni di nazionalità o di sesso:
“Ricordati del giorno di Shabbat per santificarlo. […] non farai in esso alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né lo straniero che è nelle tue porte” (Esodo 20:8-10).

Nel loro approccio verso gli stranieri, gli Israeliti devono ricordarsi del loro passato di schiavi in Egitto: “Non maltratterai lo straniero e non l’opprimerai; perché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto” (Esodo 22:21).
“Amate dunque lo straniero, poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto” (Deuteronomio 10:18-19).

Merita poi notevole attenzione una norma della Torah che protegge gli schiavi fuggiti dai loro paesi:
“Non consegnerai al suo padrone lo schiavo che è scappato dal suo padrone per rifugiarsi da te. Egli abiterà con te, in mezzo a voi, nel luogo che ha scelto, in quella delle tue città che gli sembrerà migliore, e non lo molesterai” (Deuteronomio 23:15-16).

Maimonide, nel suo Mishneh Torah, codifica le leggi relative agli schiavi non-ebrei con queste parole:

“Noi non dovremmo mettere a disagio uno schiavo [straniero] con i nostri comportamenti o con le nostre parole, poiché la Torah ha prescritto che essi lavorino, non che siano umiliati. Nessuno dovrebbe gridare contro di essi o mostrare rabbia in maniera eccessiva. Dovremmo invece rivolgerci a loro con gentilezza, e ascoltare le loro richieste. Ciò è esplicitamente affermato a riguardo delle opere di Giobbe, per le quali egli fu lodato: «Se ho negato i diritti del mio schiavo e della schiava in lite con me, cosa farò, quando Dio si alzerà, e quando mi chiederà conto, cosa risponderò? Chi ha fatto me nel seno materno, non ha fatto forse anche lui? Non fu lo stesso Dio a formarci nel grembo?». La crudeltà e l’arroganza si trovano solo tra i pagani adoratori di idoli. I discendenti di Abramo, ai quali Dio ha donato la bontà della Torah, e ha comandato loro di osservare statuti e giudizi giusti, sono misericordiosi con tutti(Hilchot Avadim, 9).

20 commenti

  1. I seguenti passi sul trattamento responsabile degli schiavi ebrei da parte del padrone (Esodo 21:20-21; 26-27) sono tradotti in tutte le versioni della Bibbia con i termini generici “schiavo” e “schiava”, mentre l’ebraismo fa distinzione fra schiavo ebreo (eved ivrì) e schiavo straniero (Eved kena’ani). La genericità della traduzione induce a pensare che le normative contenute nei passi citati riguardino indifferentemente entrambe le categorie di schiavi. Ma da un contesto più ampio si comprende che i diritti sanciti in dette norme si riferiscono unicamente agli schiavi israeliti volontari. In Israele, il padrone non comprava l’ebreo ma lo noleggiava con le funzioni di schiavo per la durata di sei anni; di conseguenza, non avendone la piena proprietà, non poteva farne ciò che voleva ed era imputabile degli eventuali danni che era tenuto a risarcirgli.
    La natura di questa particolare prestazione dei lavoratori israeliti, in un certo senso di comodato, genera l’equivoco che anche per gli schiavi stranieri, che invece erano comprati contro la loro volontà come un qualsiasi oggetto, valessero le medesime regole. Al contrario, la piena proprietà degli schiavi stranieri conferiva al padrone potere assoluto nei loro riguardi. Nella legislazione biblica vi sono tre categorie di persone che, trovandosi nella condizione di oggetto di proprietà, non avevano diritti. Esse sono: 1) I figli; 2) Le mogli; 3) Gli schiavi stranieri.

    I figli. Potevano essere venduti o donati ai sacerdoti a qualsiasi età, fin dalla nascita (Levitico 27:1-7); i figli potevano essere utilizzati come scudi umani per salvare la vita di un ospite [è il caso di Lot a Sodoma e del vecchio di Ghibea: il primo offrì le sue due figlie vergini ai sodomiti, e per questo suo atto di “giusto” fu il solo ad essere salvato con la sua famiglia dal fuoco celeste, il secondo offrì la sua unica figlia vergine ai benianimiti]; i figli potevano essere mangiati in caso di carestia o d’assedio [è il caso delle due donne, certamente senza un marito, che durante l’assedio di Samaria mangiarono il figlio di una di esse ma a patto che poi avrebbero mangiato anche il figlio dell’altra; poiché questa aveva invece nascosto il proprio figlio, la donna defraudata si rivolse all’autorità giudiziaria suprema per ottenere giustizia: al re! (2Re 6:27-29)].

    La moglie. Nel decimo comandamento, in Esodo, essa è posta addirittura al secondo posto, dopo la casa, fra le cose che appartenevano all’uomo israelita. Anche la moglie poteva essere sacrificata se si trattava di salvare la vita di suo marito [è ancora il caso del vecchio di Ghibea, il quale, oltre alla propria figlia vergine di cui era proprietario, offrì agli stupratori benianimiti anche un’altra donna che non gli apparteneva e che anzi era sua ospite. L’ospitalità era sacra ma solo verso gli uomini. Costei era la moglie dell’uomo che il vecchio aveva accolto in casa propria; quell’uomo gettò sua moglie fra le braccia dei balordi che attendevano in strada e questi la violentarono per tutta la notte. La donna morì al posto di suo marito. Dopo di ciò quest’ultimo chiese giustizia alle altre tribù d’Israele: non per sua moglie, il cui cadavere costui aveva tra l’altro fatto a pezzi, ma perché il suo oggetto di proprietà era stato usato e distrutto da altri. La giustizia da lui richiesta (Giudici 20:3-7) gli fu accordata con una crociata contro Beniamino diretta da Dio stesso (Giudici 18; 23; 26-28)].

    Lo schiavo straniero. La Torah sancisce con ben quattro norme la pena di morte per i figli disobbedienti o irrispettosi verso i loro genitori (Esodo 21:15; 17; Levitico 20:9; Deuteronomio 21:18-21) ma non ve n’è una sola contro i genitori che maltrattano i propri figli; anzi, i proverbi di Salomone consigliano l’uso abbondante di frusta e bastone per educare la prole. Ora, se i figli e le mogli non avevano diritti ma solo doveri verso il padre e marito padrone, perché lo schiavo straniero, anche lui semplice oggetto di proprietà, avrebbe dovuto avere dei diritti?

    In Levitico 25:39-46 la differenza di trattamento fra servi ebrei e servi stranieri è espressa proprio ponendo questi ultimi come pietra di paragone: l’israelita non doveva essere venduto come si vendono gli schiavi né doveva lavorare come gli schiavi, né trattato con asprezza come gli schiavi. Per i Maestri talmudici questa norma va interpretata nel senso che i servi ebrei dovessero essere utilizzati secondo la loro professione e non per lavori umili; in questo caso credo che i Maestri trascurino l’ovvio giacché la professionalità costa denaro: chi, per esempio, assumerebbe uno chef per farlo lavorare come lavapiatti? L’esortazione presente in questi versi è invece chiaramente riferita alla durezza dei castighi. Ciò si evince non soltanto dal comando più volte ripetuto di non trattare il servo ebreo con asprezza, ma anche da una semplice considerazione: a differenza del dipendente salariato che, quando lavora male, è castigato col licenziamento e magari con la cattiva nomea di professionista inaffidabile, allo schiavo le punizioni possono essere somministrate solo a bastonate. La minaccia dei castighi corporali sono il solo mezzo per far operare alla meno peggio chi è coatto al lavoro: per questa ragione, nel diciannovesimo secolo, gli stati industrializzati del Nord hanno combattuto contro quelli del Sud per abolire il sistema di lavoro improduttivo dello schiavismo incompatibile nell’economia moderna incentrata sulla competizione e sulla motivazione al guadagno.
    L’israelita che si è venduto schiavo ha già ricevuto il suo compenso: ora è schiavo a tutti gli effetti ma a tempo determinato. Sogna solamente che quel tempo passi in fretta per tornare libero, quindi non è motivato a eseguire al meglio i propri compiti, se non per paura della frusta. Il legislatore pone quindi un freno all’irascibilità dei padroni determinata dai guai provocati dai servi isrealiti perché, altrimenti, nessun ebreo avrebbe mai accettato di ficcarsi spontaneamente nelle fauci del leone, ossia alla mercé del padrone con poteri illimitati sulla sua persona.
    Il seguente verso chiarisce senza equivoci qual era il trattamento riservato agli schiavi stranieri: “Li potrete lasciare in eredità ai vostri figli dopo di voi, come loro proprietà; vi potrete servire sempre di loro come di schiavi; ma quanto ai vostri fratelli, gli Israeliti, ognuno nei riguardi dell’altro, non lo tratterai con asprezza.” (Levitico 25: 46, CEI).
    Degli stranieri, quindi, ci si poteva servire come… di schiavi! Poi c’è quel “ma”: Ma quanto ai vostri fratelli, non li tratterai con asprezza”… ossia non li tratterai come schiavi. Qui il termine schiavo è usato nella sua piena accezione di essere umano senza diritti perché equiparato a semplice oggetto di proprietà.

    Un’altra prova di come un israelita avesse legalmente la disponibilità senza riserve di mogli, figli e schiavi stranieri viene dal libro di Giudici. Iefte, ebreo in esilio nel paese di Tob, la cui popolazione pagana era ostile e Israele (2Sm 10:6-8), era divenuto famoso come predone ai danni di quel popolo di idolatri. In quel tempo Dio faceva sorgere i giudici per liberare il suo popolo – ma solo dopo che si era pentito – dagli oppressori che lui stesso mandava per castigarlo a causa della strana tendenza degli israeliti a preferire i culti e gli dèi pagani.
    Iefte fu scelto da Dio per questo compito, e il suo spirito era su di lui (Giudici 11:29). Quest’uomo era molto edotto sulla Torah (Giudici 11:14-27) e, dopo quella guerra che sarebbe stata inevitabilmente vittoriosa sotto la guida celeste, egli fu sempre per volontà di Dio giudice d’Israele, ossia capo e guida morale, per il resto dei suoi anni. Era quindi un uomo eccellente consapevole delle proprie azioni; ma, essendo troppo preso dal rancore verso i suoi compatrioti che lo avevano esiliato in passato, non aveva tuttavia compreso che in quel conflitto egli era soltanto uno strumento del Cielo. Offuscato dai suoi sentimenti, fece un voto a Dio; promise un grande sacrificio per ottenere quella vittoria sui nemici che era già nei progetti divini: gli avrebbe offerto in olocausto la prima persona della sua casa che gli fosse andata incontro al suo ritorno.
    Evidentemente egli aveva autorità incondizionata sulla gente che abitava con lui. Chi poteva abitare in quella casa che si trovava nella terra straniera di Tob? Sicuramente non servitori ebrei “a nolo”, verso i quali il suo potere sarebbe stato limitato, ma schiavi stranieri; inoltre vi risiedeva la sua unigenita figlia, il che fa anche comprendere che in assenza di eredi maschi nella sua casa dovessero esserci diverse mogli e concubine dalle quali egli forse sperava di avere alla fine qualche altro figlio. Iefte fu premiato in guerra, perché questa era la volontà di Dio, ma a causa di quel voto superfluo fu punito: ad andargli incontro, infatti, fu proprio la sua figlia unigenita.
    La Torah consentiva di immolare schiavi stranieri e mogli (Levitico 27:28-29) – ed è ciò che appunto Iefte intendeva fare col suo voto – ma vietava tassativamente il sacrificio della prole, salvo che a comandarlo non fosse Dio stesso (Giosuè 6:26-27; 1Re 16:34; 2Samuele 21:1-14).

    Il riposo sabbatico per tutti, schiavi e animali compresi, è uno strano diritto giacché è imposto con una disposizione penale che sancisce ripetutamente la morte per i trasgressori (Esodo 31:12-17).
    Riposare tutto il giorno non consiste nel non far niente, perché l’immobilismo annoia. Oggi, nel weekend si fanno tante cose, anche lavori come riparare o costruire piccoli oggetti per hobby, cucinare pietanze complesse, dipingere, pescare, andare in bici, viaggiare, insomma attività non obbligatorie e non remunerative ma che divertono o danno spensieratezza.
    Il comando biblico, invece, impone una sola attività: meditare sul legame con Dio e con la sua parola, la Torah: “Porrete dunque nel cuore e nell’anima queste mie parole; ve le legherete alla mano come un segno e le terrete come un pendaglio tra gli occhi; le insegnerete ai vostri figli, parlandone quando sarai seduto in casa tua e quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai; le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte” (Dt 11:18-20, CEI.)
    Il riposo era esteso pure agli schiavi e agli animali non per un riguardo verso di loro ma perché, se questi lavoravano, il padrone era costretto a sorvegliarli e a intervenire quando sorgevano inghippi durante il lavoro, quindi a distogliersi dalla meditazione religiosa, mentre la sua mente e quella di ogni ebreo doveva concentrarsi esclusivamente sui contenuti della legge mosaica.
    Gli schiavi stranieri, infine, non erano liberi di esercitare i propri “abominevoli” culti religiosi, a differenza che in qualunque altra parte del mondo coevo dove, non esistendo divinità intolleranti, chiunque poteva praticare la propria fede. L’intolleranza religiosa nasce appunto col monoteismo e l’attestazione della verità rivelata.

    1. Ci sarebbero molte cose da dire a proposito di questa lettura riduttiva e a tratti molto fuorviante del testo biblico. Da dove cominciare?
      Gli schiavi, nella Torah, non sono oggetti, ma persone. Lo dimostra ad esempio l’analisi strutturale di Rav Samet della parashah di Mishpatim, di cui abbiamo parlato nel nostro articolo (a cui rimandiamo) dal titolo “Mishpatim: la logica della Legge”.
      Come si fa poi ad affermare che gli Israeliti potessero trattare in maniera disumana gli schiavi stranieri, quando il Levitico stesso comanda di non maltrattare o opprimere gli stranieri in virtù dell’esperienza personale vissuta dagli Israeliti in Egitto? Non è accettabile. Ancora una volta è imprescindibile il confronto con i codici giuridici del Vicino Oriente antico, da cui emerge una concezione della schiavitù radicalmente diversa.

      Le donne erano “oggetti di proprietà senza diritti”? Anche questa idea non regge. La Torah utilizza un linguaggio patriarcale proprio della sua epoca di composizione, è vero, ma al di là delle espressioni che a noi oggi appaiono aspre, la concezione della donna nella Bibbia non corrisponde a quanto da te affermato. La donna, come l’uomo, è creata a immagine di Dio secondo Genesi 1. La subordinazione della donna è presentata come una maledizione divina dovuta al peccato (Genesi 3:16), non come una condizione naturale imprescindibile. Donne come Sarah, Rivkah, Miriam, Devorah e Avigail erano forse bestie da soma? Proprietà senza diritti? Persino la schiava Hagar ci viene presentata dalla Torah in modo che il lettore si schieri dalla sua parte nel corso della sua dolorosa vicenda di oppressione. I casi di Lot e della concubina di Givah, inoltre, non rappresentano un modello etico da imitare. In queste vicende non esistono personaggi del tutto giusti e infallibili: ciascuno ha compiuto le sue gravi pecche, come uno studio accurato del testo ci mostra.

      Inaccettabile è poi l’interpretazione proposta di Levitico 27:28-29, che a tuo parere prescriverebbe i sacrifici umani di mogli e schiavi (?). In realtà qui il testo ebraico usa il termine cherem, che indica di solito un condannato a morte o un nemico votato alla distruzione in guerra. Costoro non possono essere riscattati dalla loro condanna, ma non si tratta in alcun modo di vittime immolate nel Tempio.

  2. Secondo me, fuorvianti sono le norme mosaiche che prescrivevano determinati “ammortizzatori” sulla schiavitù volontaria degli israeliti in miseria; tali normative in loro favore, infatti, inducono all’equivoco che esse riguardassero anche i veri schiavi: quelli stranieri. Il sistema della schiavitù volontaria conteneva la disoccupazione (sempre foriera di disordini sociali) e inoltre consentiva ai possidenti di avere manodopera a metà prezzo rispetto a quella dei prestatori d’opera salariati. Per questo la legge mosaica sanciva precise garanzie per il dipendente che si prestava come schiavo… ma senza esserlo veramente. Affinché questo concetto fosse chiaro, in Levitico 25 c’è un accenno agli schiavi stranieri ma solo per porli come paragone: loro sono i veri schiavi, e sono proprietà imperitura trasmissibile agli eredi, ma l’ebreo volontario non va trattato come schiavo. Non va trattato con durezza.

    Il rispetto verso lo straniero decretato nella Torah non dimostra che con ciò fosse disposto il trattamento umanitario degli schiavi stranieri. Lo straniero da rispettare, infatti, era soltanto quello libero; onorare i forestieri era una legge sacra in Israele come in ogni altra parte del mondo. Presso i greci e i romani il viandante era sotto la protezione di Zeus. L’Iliade offre un esempio di ciò: il troiano Glauco e il greco Diomede interrompono il loro duello sul campo di battaglia scoprendo che i loro rispettivi padri erano stati l’uno ospite dell’altro. Per cui, al posto del combattimento, fra i due avviene uno scambio di doni (Iliade VI 119 ss.).
    La ragione universale di tale rispetto verso il forestiero nell’antichità era che, a differenza della nostra epoca di iper comunicazioni e trasporti, gli unici veicoli per avere notizie dall’estero, per la trasmissione delle idee e delle tecnologie e per gli scambi commerciali erano i viaggiatori, i quali dovevano attraversare terre impervie e ostili spesso senza strade, ponti, sottopassaggi, a piedi o su cavalcature o navigando su gusci di noce.
    Pure presso i greci, come in Israele, c’era una netta distinzione di trattamento fra stranieri schiavi, inesistenti come persone, e stranieri liberi cui riservare ogni onore.

    La Torah, che non è solo un codice di leggi ma anche insegnamento, mostra con esempi come ci si deve comportare con gli stranieri. Due uomini giusti, Lot a Sodoma e un vecchio a Ghibea, all’opposto dei perversi abitanti di Sodoma e di Ghibea che volevano fare violenza a dei forestieri, non solo offrirono a questi ultimi ospitalità ma si dichiararono disposti a proteggerli cedendo ai bruti in strada le loro uniche figlie, che per di più erano fidanzate. Perdendo le loro figlie, essi ci avrebbero rimesso due cose di elevato valore: il “prezzo della sposa” e di avere una discendenza. A tal proposito, cito quanto asserisci poiché non lo condivido:

    “I casi di Lot e della concubina di Givah, inoltre, non rappresentano un modello etico da imitare. In queste vicende non esistono personaggi del tutto giusti e infallibili: ciascuno ha compiuto le sue gravi pecche, come uno studio accurato del testo ci mostra.”

    Al contrario, quei due personaggi, Lot e il vecchio, dimostrandosi disposti a grandi rinunce per salvare degli sconosciuti (maschi adulti) sono indicati come modelli da emulare. Essi, per le loro azioni furono premiati dalla giustizia divina che li mise in salvo, mentre Sodoma e l’intera tribù di Beniamino, di cui faceva parte Ghibea, furono distrutte interamente a causa della loro crudeltà verso i viaggiatori stranieri.

    Non vi è dubbio che in questo senso la Torah è insegnamento valido anche ai nostri giorni; il solo dettaglio che lascia perplesso l’uomo moderno è che quei due “giusti” mostrarono la loro abnegazione per la salvezza dei loro ospiti volendo sacrificare al loro posto altri esseri umani, ma femmine, figlie o mogli, che come tali erano oggetti del patrimonio di quei due “giusti”.

    Questi episodi rivelano che figli e mogli non avevano diritti. Di certo normative che sanciscano tali diritti non esistono nella Torah. I nomi femminili che citi non dimostrano che le donne israelite fossero titolari di diritti; quei nomi rivelano piuttosto che il valore reale di alcune donne non passava inosservato alla letteratura biblica. Mi spiego: anche nell’antica Grecia le donne erano prive di diritti, tuttavia la letteratura greca trabocca di personaggi femminili ammirevoli al cui confronto uomini eroici non fanno bella figura. Esempi sono Arianna, che diede a Teseo il famoso gomitolo perché uscisse vivo dal labirinto del minotauro, ma poi fu da lui piantata in Nasso, e Didone, che fondò la città di Cartagine su un appezzamento di terra donatole da un re africano; ma quel re le aveva offerto soltanto un pezzo di terreno compreso in una pelle di bue, mentre lei tagliò in filamenti sottili quella pelle per realizzare un’estesa circonferenza. Pure lei, però, fu piantata in asso dall’eroe Enea.

    Anche la letteratura biblica, a differenza della sua legislazione, dà risalto alle doti intellettive di alcune donne. Rebecca, per esempio: quando il messo di Abramo ebbe terminato di esporre il motivo della sua visita al padre e al fratello maggiore di costei, essi, lei presente, cosa risposero a quell’uomo?

    “Allora Làbano e Betuèl risposero: «Dal Signore la cosa procede, non possiamo dirti nulla. Ecco Rebecca davanti a te: prendila e va’ e sia la moglie del figlio del tuo padrone, come ha parlato il Signore».” (Gn 24, 50-51, CEI)

    Costoro vendevano una persona a uno sconosciuto appena arrivato che l’avrebbe portata via in terre lontane come fosse stata… una bestia da soma. Fin qui la legislazione, che non consentiva il diritto non dico di decidere ma almeno di parola alla ragazza. Segue però il lato letterario: Rebecca ha una famiglia che le vuole bene e sa che quella separazione sarà definitiva dovendo lei partire per luoghi troppo lontani. Vorrebbero che la ragazza rimanesse con loro ancora una decina di giorni affinché il reciproco distacco non fosse brusco, ma il messo insiste per ripartire già l’indomani mattina. Allora i parenti di Rebecca lasciano a lei la decisione: lei è solo un’adolescente, ma già comprende che c’è un destino molto speciale che l’attende, e senza indugio asseconda la richiesta del messo.
    Parecchi anni dopo, ormai anziana, si rivela più sagace di suo marito Isacco nel giudicare le opposte qualità dei loro due figli, Esaù e Giacobbe. Comprende che è a quest’ultimo, sebbene sia il minore, che spetta la benedizione paterna ed è lei stessa che escogita il modo ingegnoso perché Giacobbe potesse ingannare il poco lucido Isacco.

    1. La tua lettura dell’episodio di Sodoma è alquanto semplicistica e inaccurata. Tu vedi una contrapposizione manichea tra il giusto Lot e i cattivi Sodomiti. In realtà il testo biblico è molto più complesso e ricco di sfumature da cogliere. Da alcuni elementi del racconto comprendiamo che la Torah non ci presenta Lot come un modello positivo, ma come un personaggio discutibile che nella sua esteriorità ha preservato la bontà e l’ospitalità di Avraham, ma nel profondo è stato contagiato dalla cultura corrotta di Sodoma. Non a caso il testo ci dice che Lot viene tratto in salvo per i meriti di Avraham, non per i propri.
      Dinanzi all’esortazione degli emissari divini di fuggire dalla città, Lot indugia (19:16), e gli angeli devono quasi forzarlo a uscire. Invece di fuggire verso i monti, come gli era stato richiesto, Lot chiede di potersi rifugiare nella piccola città di Tzohar: pur di non abbandonare la civiltà urbana (fonte di corruzione secondo la Genesi), Lot cerca compromessi e fa di tutto per non allontanarsi troppo da Sodoma, città che egli stesso aveva scelto cercando un proprio “Eden rigoglioso” (ma pieno di malvagità) in contrapposizione alla vita nomadica e spiritualmente elevata dello zio. Sua moglie, del resto, rimane vittima di questa stessa mentalità e si volta indietro: l’attaccamento a Sodoma è troppo forte anche dinanzi alla calamità.
      Persino dopo essere stato salvato, Lot appare inerte, incapace di vivere una vita al di fuori della ricca metropoli che ormai per lui costituiva l’unico mondo possibile. E allora la Torah lo rende vittima di un curioso contrappasso, facendolo “violentare” dalle figlie, proprio le stesse figlie che egli stesso aveva offerto alla folla per essere stuprate. In questo modo Lot diventa l’erede spirituale di Sodoma, generando suo malgrado Moav e Ammon, due civiltà colpevoli dei medesimi peccati di inospitalità che caratterizzavano i Sodomiti. Nonostante questo, la Bibbia rifiuta ogni schematismo e fa derivare da Moav una donna virtuosa (Ruth) che rettifica l’errore di Lot e ritorna sulla strada di Avraham (vedi il nostro articolo “Ruth: redimere il passato”).
      Un simile discorso vale anche per la vicenda speculare della concubina di Givah, che meriterebbe di essere analizzata nel dettaglio, come anche la questione degli schiavi stranieri e dei diritti delle donne.

      1. La Bibbia ripete spesso i suoi insegnamenti: gli episodi di Lot e quello di Ghibea insegnano in che modo è giusto trattare i forestieri. Nel secondo dei due, una donna fu effettivamente ceduta per fare da scudo umano ai violentatori; il responsabile, però, non è indicato come un criminale ma come una vittima che chiede giustizia e la ottiene dagli uomini e da Dio. L’utilizzo come scudi delle proprie donne evidentemente non è un peccato per la Bibbia ma un atto di necessità. Secondo te, invece, la Bibbia condanna atti di questo tipo, per cui Lot, che in tal caso apparirebbe per nulla migliore dei sodomiti, sarebbe stato poi castigato essendo violentato dalle sue figlie.

        Bisogna riconoscere, però, che se Lot, nel suo cuore, fosse stato intimamente un peccatore sodomita avrebbe meritato di essere bruciato assai più dei lattanti di Sodoma.
        Anche Davide commise un paio di peccati gravissimi (adulterio e assassinio, poi un censimento non autorizzato da Dio) ma la Bibbia non lo presenta come un personaggio discutibile; essa, anzi, non manca mai di indicare le pecche e il relativo castigo di tutti i giusti scelti da Dio affinché sia chiaro che nessun uomo è perfetto.
        Noè e Lot sono presentati entrambi come uomini giusti contrapposti a una massa umana interamente corrotta. È messa tuttavia in evidenza almeno una macchia in ciascuno di questi patriarchi: Noè si ubriaca talmente da cadere in un degrado tale che lo porta a denudarsi (la nudità è una vergogna nella cultura biblica); da questa sbronza sorge poi un incidente: uno dei suoi figli vede la sua nudità, in un certo senso commette incesto, per cui, in seguito alla maledizione paterna discenderanno da lui i malvagi cananei. Anche Lot si ubriaca all’inverosimile, il che consente alle sue figlie di consumare l’incesto e così da lui discenderanno altri due popoli malvagi nemici d’Israele: ammoniti e moabiti.

        Lot, relegando se stesso e le sue figlie in solitudine sulle montagne e impedendo così alle due ragazze di sposarsi non fece che disprezzare il dono più grande che Dio concedeva agli uomini, quello stesso dono che era stato promesso ad Abramo per allettarlo: una discendenza. Già prima che fosse rivelata la Torah, c’era perfino la consuetudine che il fratello di un uomo morto senza aver avuto una prole sposasse la sua vedova e che i figli generati da questa divenissero discendenza del defunto. Dio dà e Dio toglie, come ebbe a dire Giobbe, che fu privato dei suoi dieci figli ma poi fu compensato con altri dieci. È solamente Dio che toglie, non può essere l’uomo a decidere di interrompere la propria stirpe come stava facendo Lot. L’uomo non può impedire a una donna il suo sacro dovere di generare i doni di Dio, cioè i figli.
        Pertanto, in quella terra dove i peccati degli uomini erano castigati severamente dal Cielo, le figlie di Lot furono invece autorizzate a commettere incesto aggirando così l’ottusa ed egoistica codardia del padre che le condannava alla vergogna di non divenire madri. Allo stesso modo, in seguito, anche Giuda fu aggirato dall’intraprendente nuora, Tamar, la quale si fece ingravidare da lui con un altro tipo d’inganno. Anche in quest’altro episodio Dio restò a guardare: aveva già fatto morire i primi due figli di Giuda per i loro peccati, ma consentì a Tamar di compiere quell’atto incestuoso che alla fine fece però dire a Giuda ” È più giusta di me”.

        Lot chiese che una delle cinque città della pianura fosse risparmiata dalla distruzione non perché, secondo la tua lettura, da uomo empio desiderava che almeno una città di peccatori sopravvivesse; al contrario, dopo aver trovato rifugio nella città superstite, dovette presto fuggire anche da lì perché con quella gente non aveva nulla in comune. Lui era semplicemente pavido, si nascose sulle montagne essendo vittima della sua paura ma in questo modo mancò di rispetto a Dio rifiutando i suoi doni, condannava le sue figlie al disonore di non poter essere madri, troncava il proseguimento della sua stirpe. Fu per questa debolezza che gli toccò di essere “violentato” dalle sue figlie, così come Giuda lo fu da parte di Tamar.
        A Lot come a Giuda Dio diede a ciascuno una discendenza, e la diede proprio da quelle donne che essi avevano costretto alla sterilità.
        Direi che l’insegnamento morale degli eventi di Sodoma sia triplice: 1) di emulare Lot e non i sodomiti sul modo di trattare i forestieri; qui l’immagine manichea è posta non da me ma dal racconto biblico che taccia di malvagità in blocco tutti gli abitanti di ogni età di intere popolazioni; 2) di non vedere Lot come un gigante di virtù che sovrasta moralmente una massa di malvagi poiché anche lui ha qualche lato debole come qualsiasi altro uomo; 3) Lot non va più preso a modello laddove impedisce alle sue donne di proliferare secondo il loro legittimo desiderio prevaricando così la volontà divina, la sola che può decidere se privare della maternità una donna o se interrompere una stirpe.

        Riguardo alla moabita Rut, non vedo alcun collegamento con questa storia. Rut riscatta i moabiti così come Raab riscatta i cananei. L’ammonimento biblico è che il popolo eletto non deve montarsi la testa poiché molti di loro sono malvagi e anche i migliori tra loro peccano; contestualmente, vi sono delle eccellenze comportamentali pure tra i pagani.

      2. Scrivi: “[la Bibbia] non manca mai di indicare le pecche e il relativo castigo di tutti i giusti scelti da Dio”. Non è assolutamente così. A volte il testo biblico è esplicito nel lodare e nel condannare, altre volte il punto di vista morale del narratore è affidato al sottotesto, e ci sono tanti esempi che potrei citare. Il testo non condanna esplicitamente Sarah per il modo in cui tratta la schiava Hagar, ma il sottotesto la paragona (nemmeno troppo implicitamente) agli Egizi che opprimono gli Israeliti in Esodo. Yaakov non viene condannato per l’episodio del furto della benedizione, eppure questo atto lo perseguita per tutta la vita facendogli comprendere il suo errore (nel testo ebraico è molto più evidente). Leggendo il racconto dello stupro di Dinah, sembra quasi che Shimon e Levì siano dei guerrieri eroici da lodare, finché molti capitoli più avanti Yaakov non li condanna duramente per la loro violenza. Lo stesso vale per David, che oltre al caso più grave e palese della vicenda di Uriah, compie anche altre azioni che la Bibbia non approva, ma che non sono criticate in modo altrettanto esplicito (vicenda di Naval e Avigail; il periodo buio a Tziklag; passività nella vicenda dello stupro di Tamar; rifiuto di mettere a morte Avshalom). Insomma, la Bibbia è scritta in 3D non in 2D, e per comprenderla bisogna indossare gli occhiali giusti.

        Tu stesso, del resto, attribuisci a Lot una colpa non del tutto esplicita nel testo: quella di voler privare le figlie di una prole. Ma c’è una colpa molto più palese ed è quella di voler dare le due figlie in pasto alla folla, tra l’altro affermando che esse “lo yadù ish” (non conoscono uomo), cosa non propriamente esatta dal momento che erano entrambe promesse spose (per cui ogni infedeltà, secondo le leggi dell’epoca, avrebbe già costituito adulterio). Ciò che risalta agli occhi del lettore è l’ipocrisia di Lot, non la sua giustizia, a meno che non si voglia imporre al testo un preconcetto, ossia quello che “le donne come scudi umani sono permesse”, possibilità che la Genesi esclude presentandoci, come nella migliore tradizione biblica, una punizione “middah keneged middah” (misura per misura) contro Lot, violentato dalle figlie, che diviene il padre delle nuove Sodoma e Gomorra, cioè Moav e Ammon.
        Come i Cananei, colpevoli di incesto, vengono associati nella Genesi a un mitico antenato colpevole di un atto pseudoincestuoso (Cham figlio di Noach), così i Moabiti e gli Ammoniti, colpevoli di inospitalità, sono associati alla famiglia di Lot, una famiglia purtroppo contagiata dalla città inospitale per antonomasia, della quale diventano eredi.

  3. Il capitolo 27 di Levitico tratta unicamente del riscatto monetario delle persone, delle cose e degli animali donati al santuario ma che l’offerente, avendo cambiato idea, decideva di riprendersi. Il verso 28 di questo capitolo, però, precisa che se l’offerente ha messo il cherem sulla persona, cosa o animale che ha donato, il riscatto non gli è più possibile poiché ciò che è stato votato con l’interdetto (ossia col cherem) ormai appartiene ineludibilmente a Dio e non potrà essere né riscattato (dall’offerente) né venduto (dal sacerdote che ne è divenuto il nuovo proprietario). In che modo l’oggetto votato poteva essere dato al legittimo destinatario celeste? Con l’olocausto, naturalmente.
    La norma, inoltre, considera la possibilità che, nel caso di persone votate col cherem, l’offerente fosse tentato di volerle riscattare a ogni costo, come infatti accadde a Iefte appena scoprì che la persona da lui votata in olocausto a Dio era sua figlia e non uno schiavo. Pertanto è aggiunta una postilla (verso 29) che precisa l’impossibilità di riscattare la persona offerta a Dio con voto d’interdetto. Quella persona deve morire.

    Poiché nel verso 29 il soggetto che ha posto il cherem non è citato, sebbene si tratti implicitamente dell’offerente del verso precedente, si tende a pensare che ora il soggetto non sia più l’offerente ma l’autorità giudiziaria oppure quella militare. Con ciò si fa un grave torto al legislatore poiché gli si addebita l’incapacità di esprimersi con chiarezza là dove, trattandosi di normative, occorre la massima trasparenza.
    Secondo le regole della scrittura, se il soggetto cambia, per cui a compiere una determinata azione indicata in precedenza interviene poi un soggetto diverso, questo deve essere menzionato. Nella fattispecie, se davvero il soggetto che ha posto il cherem non fosse più l’offerente ma il tribunale, e se la persona che ha ricevuto il cherem non è qualcuno consacrato con voto religioso ma un reo che va giustiziato, ciò andrebbe specificato, altrimenti si salterebbe illogicamente di palo in frasca. A maggior ragione perché tutto il capitolo in questione tratta solo del riscatto di voti religiosi.

    Riguardo al cherem posto dalle autorità giudiziarie e militari e sull’impossibilità del riscatto di criminali e di popolazioni votate allo sterminio, nella Torah vi sono sezioni apposite che trattano questi diversi argomenti (Nm 35:31 e Dt 20:16-20).

    1. Mi dispiace ma non sono per nulla d’accordo. Il cherem non è mai un sacrificio, in nessun caso. Esso è sacro ad HaShem nel senso di interdetto a qualsiasi uso, ed è di proprietà del Santuario fino al suo annientamento, ma non viene mai sacrificato sull’altare. Non solo il tribunale, ma anche qualsiasi israelita o l’intero popolo collettivamente poteva possedere qualcosa che veniva votato all’interdizione inviolabile, come nel caso di oggetti idolatrici o del bottino di guerra, per questo il soggetto è generico.
      Che non si tratti di un sacrificio è dimostrato da 1 Samuele 15:21, in cui l’esercito di Shaul prende parte del bestiame soggetto al cherem per offrire sacrifici a Dio, scelta duramente condannata dal profeta Shemuel. Se come sostieni tu il cherem fosse già un sacrificio, tale brano non avrebbe senso.
      Inoltre la Torah è molto precisa riguardo i sacrifici: ci dice quali animali sacrificare, come e quando sacrificarli, cosa fare con le varie parti del corpo ecc. Nulla ci dice in merito al sacrificio di esseri umani, e del resto è ragionevole, considerando che il corpo senza vita degli esseri umani produce impurità, come anche le carcasse degli animali impuri. E ciò che è tamèh (impuro) non può essere accostato al Santuario.

      1. Il cherem non era sacrificio solo quando era posto direttamente da Dio su cose e persone che, in tal modo, appartenevano solo a lui e non più all’uomo. Sacrificio, come dice la parola stessa, era la rinuncia a qualcosa di proprio in onore a Dio allo scopo di ottenere da lui dei vantaggi. Tali vantaggi consistevano nell’espiazione dei peccati oppure nell’ottenimento di favori. Il caso di Saul che hai citato riguarda una furbata di questo re e dei suoi soldati: Dio aveva posto il cherem sugli amaleciti e su tutto ciò che possedevano; invece, gli israeliti si appropriarono del meglio del bestiame per donarlo, sotto forma di sacrificio, a chi ne era già il legittimo proprietario, cioè a Dio.
        Dio pose il cherem in Israele sui primogeniti maschi di uomini e bestiame:

        “Ogni essere che nasce per primo dal seno materno è mio: ogni tuo capo di bestiame maschio, primogenito del bestiame grosso e minuto. 20 Il primogenito dell’asino riscatterai con un altro capo di bestiame e, se non lo vorrai riscattare, gli spaccherai la nuca. Ogni primogenito dei tuoi figli lo dovrai riscattare.” (Esodo 34:19-20 CEI)

        Ciò significava che il padrone di una giovane vacca che voleva rinunciare a un vitello offrendolo a Dio in cambio di un favore, poteva farlo solo con i nati successivi, non col primo nato che era già proprietà di Dio. Il primogenito dell’animale doveva morire, ma non sull’altare. Nel caso di animali impuri come l’asino, potevano essere sostituiti da animali puri, ma se il padrone non voleva farlo, allora l’asino doveva semplicemente essere ucciso, poiché apparteneva a Dio.
        Il cherem poteva essere posto anche dagli offerenti su ciò che, del proprio patrimonio, offrivano alla divinità:

        “Nondimeno, tutto ciò che uno avrà consacrato al Signore per voto d’interdetto, fra le cose che gli appartengono, si tratti di una persona, di un animale o di un pezzo di terra del suo patrimonio, non potrà essere né venduto, né riscattato; ogni interdetto è cosa interamente consacrata al Signore.” (Levitico 27:28, NR)

        Votando qualcosa del suo patrimonio col cherem, il fedele si privava della possibilità di recuperarlo col versamento di un riscatto nel caso poi cambiasse idea; in questo modo, imponendosi una rinuncia maggiore, poteva chiedere a Dio favori più grandi. È appunto ciò che fece Iefte col suo voto volendo vincere nientemeno che una guerra.
        Gli animali offerti ogni anno con voto d’interdetto dovevano necessariamente essere uccisi e bruciati, altrimenti, poiché i sacerdoti del santuario (ce n’era uno solo legittimo in tutta Israele) non essendo autorizzati a rivenderli, sarebbero stati costretti a mantenerli a vita. Mantenere sterilmente centinaia di migliaia di capi, considerando che il santuario si sostentava solo con le offerte dei fedeli, non sarebbe stato possibile. Del resto il verso successivo precisa che se il cherem era posto su una persona, anche questa, come gli animali, doveva morire.

        In questo senso la storia di Iefte è ancora insegnamento. La sua correttezza nello sciogliere comunque il suo voto, nonostante la sorpresa che la persona da immolare fosse sua figlia e non uno schiavo, e la comprensione di ciò da parte di sua figlia, sono modelli da emulare. Ma anche Iefte aveva le sue pecche: per rivalsa sui suoi concittadini che lo avevano esiliato voleva ottenere gloria in una guerra col semplice aiuto mercenario di Dio con quell’offerta che gli aveva fatto. Quella, invece, era una guerra di Dio, il cui esito Dio aveva già deciso senza bisogno che gli si facessero voti. Le storie bibliche insegnano che l’uomo non deve sostituire la volontà di Dio con la propria, poiché tutto viene da lui e il vero merito dell’uomo è accettare incondizionatamente le sue decisioni senza porre condizioni. Come appunto fece Giobbe.

        La precisione della Torah sui sacrifici degli animali dipende dal fatto che solitamente gli animali sacrificati erano cotti e mangiati: dunque, in primo luogo non potevano essere animali di cui era vietato alimentarsi; in secondo luogo, il sangue e il grasso dell’animale dovevano essere eliminati; infine c’era la spartizione, poiché ai sacerdoti erano destinate le parti migliori del cucinato, oltre alla pelle.
        I cadaveri erano considerati impuri, ma non quelli delle vittime immolate sugli altari, poiché i corpi venivano subito cotti oppure bruciati interamente. L’israelita si contaminava anche solo toccando un osso che spuntava dalla terra, ma non tenendo in mano un cosciotto fumante di capretto.

  4. Scrivi: “Sacrificio, come dice la parola stessa, era la rinuncia a qualcosa di proprio in onore a Dio allo scopo di ottenere da lui dei vantaggi. Tali vantaggi consistevano nell’espiazione dei peccati oppure nell’ottenimento di favori”. Questa forse è la definizione pagana di sacrificio, non certo quella biblica. Tra l’altro la parola “sacrificio”, nel senso non proprio etimologico di “rinuncia”, non esiste nella Bibbia, che parla invece di korban (dal verbo “avvicinarsi”, che indica comunione con Dio) o zevach (un’offerta gioiosa di cui usufruisce anche l’offerente stesso). Esistevano vari tipi di sacrifici, da quelli di pura devozione alle “multe sacre”, fino alle offerte di comunione e condivisione chiamate Shelamìm.

    Lungi dall’essere un sacrificio, il cherem è un voto di interdizione e distruzione, come ciò che i Romani fecero con Cartagine, per intenderci. Il sacrificio è “reach nichoach” (odore soave dinanzi ad HaShem), il cherem invece è costa detestabile da bandire. Esaminando ogni singola occorrenza di questo termine, notiamo che esso si applica sempre a qualcosa di proibito o da aborrire, come i condannati a morte, i nemici, le spoglie di guerra soggette a interdizione, beni confiscati a causa di gravi colpe ecc.
    Mai ci viene detto che un elemento soggetto al cherem viene sacrificato sull’altare. Quando il Levitico parla di persone condannate al cherem, utilizza l’espressione tecnica che indica sempre le esecuzioni capitali (“mot tamut”), e che naturalmente non è mai applicata alle vittime sacrificali.

    L’episodio della figlia di Iefte non c’entra nulla con il cherem. Nel racconto non si parla di “cherem”, bensì di “olah” (olocausto), stesso termine usato anche in Genesi per Isacco. Se Iefte si rammarica di non poter risparmiare sua figlia è soltanto perché egli ha espresso un “neder” (Giudici 11:30), cioè un voto, dando la sua parola ad HaShem a prescindere dal contenuto specifico della promessa.

    1. Il termine sacrificio inteso come rinuncia sarà assente nella Bibbia, come affermi, ma i voti di rinuncia per ottenere favori concreti, all’uso dei pagani, erano comunque fatti dai principali personaggi biblici (ed esauditi da Dio). Quello che fece Giacobbe fa addirittura pensare a una proposta commerciale rivolta a una ditta cui si promette di esserne clienti in cambio di precisi vantaggi:

      “Giacobbe fece questo voto: «Se Dio sarà con me e mi proteggerà in questo viaggio che sto facendo e mi darà pane da mangiare e vesti per coprirmi, se ritornerò sano e salvo alla casa di mio padre, il Signore sarà il mio Dio. Questa pietra, che io ho eretta come stele, sarà una casa di Dio; di quanto mi darai io ti offrirò la decima».” Genesi 28:20-22, CEI

      La madre del profeta Samuele, prima che lo mettesse al mondo, era una donna piena di vergogna per la sua sterilità e umiliata dall’altra moglie di suo marito che invece era prolifica. Fece a Dio una richiesta corredata dal solito “se”:

      «Signore degli eserciti, se vorrai considerare la miseria della tua schiava e ricordarti di me, se non dimenticherai la tua schiava e darai alla tua schiava un figlio maschio, io lo offrirò al Signore per tutti i giorni della sua vita e il rasoio non passerà sul suo capo». (1Samuele 1:11, CEI)

      Sostieni inoltre che il cherem è sinonimo di distruzione e si applica unicamente a ciò che è aborrito. A me sembra invece che significhi solo interdizione all’uso umano e che si applica anche a ciò che il fedele stesso vuole consacrare a Dio fra le cose che gli appartengono. Ciò che è offerto con l’aggiunta del cherem diviene santissimo e inviolabile. Dalla traduzione del rabbino Luzzatto:

      “Ma qualunque consacrazione uno
      faccia al Signore sotto nome di
      Hhèrem, d’alcun essere che gli
      appartenga, sia di persone [cioè schiavi
      non Israeliti], d’animali, o dei campi del
      suo patrimonio; non si potrà vendere,
      né ricuperare. Ogni Hbèrem
      appartiene, qual cosa santissima, al
      Signore. (Levitico 27:28, Luzzatto).

      Un altro esempio di voto secondo il principio universale del “do ut des”, dare per avere, è l’offerta in olocausto fatta da Iefte di una persona del suo patrimonio in cambio della vittoria. Il condottiero israelita, fine conoscitore della storia e della Legge d’Israele, lodato nel Tanakh e Giudice fino al termine della sua vita, fece un voto legale applicando la norma qui sopra menzionata. Non si parla di cherem nel racconto in questione poiché, come tu stesso dici, non tutto è esplicitato nella Scrittura, ma lo si comprende in modo inequivocabile nel proseguo della narrazione poiché Iefte non poté revocare il suo voto.
      Eppure il capitolo 27 di Levitico, che tratta interamente del riscatto di ciò che è stato offerto al santuario, gli avrebbe consentito una via d’uscita consistente nel riscatto di sua figlia; questa presumibilmente aveva un’età compresa fra i cinque e i vent’anni: la somma stabilita dalla Legge era di dieci sicli d’argento. In detta normativa è precisato però (al verso 29) che se il fedele ha posto il cherem sulla sua offerta non può più riscattarla, nemmeno se si tratta di una persona a lui cara. Questa persona dovrà morire. Per cui Iefte, che evidentemente aveva messo il cherem a causa dell’entità notevole del favore richiesto (vincere una guerra) non poté che adempiere quel voto.

      1. Se Iefte non poté evitare di adempiere il suo voto non fu perché si trattava di un cherem (infatti non lo era), bensì perché egli aveva pronunciato un “neder lifnè HaShem”, e la Torah in Numeri 30:2 prescrive: “Quando uno fa un neder per HaShem […] non violerà la sua parola, ma farà tutto ciò che è uscito dalla sua bocca”.

        Insomma, il cherem non c’entra nulla: qui si parla di un neder (voto) e di un’olah (olocausto). Sono concetti diversi, e la vicenda di 1 Samuele 15 dimostra in modo incontrovertibile che cherem e korban (sacrificio a Dio) sono nettamente distinti. Il cherem è distruzione, e il fatto che sia “sacro ad HaShem” non significa che si tratti di un sacrificio o di una consacrazione “positiva”. In ebraico kodesh (sacro) significa distinto, esclusivo, qualcosa che non può essere impiegato dall’uomo per qualsiasi scopo. Il cherem è messo da parte (quindi è “sacro”) in nome della Divinità, ma ciò non significa che venga sacrificato sull’altare, anzi al contrario viene aborrito e annientato. Gerico è un caso di cherem, non certo la figlia di Iefte.

        Penso di aver illustrato la questione in modo sufficientemente chiaro, per il resto rimando al recente articolo “La figlia di Iefte: storia di un sacrificio umano”, recentemente pubblicato su questo sito.

  5. Secondo la tua tesi, Lot subì una sorta di contrappasso: giacché voleva far violentare le sue figlie, fu lui a essere violentato… ma da chi? Da quella stessa folla di maschi brutali? No, assai dolcemente e senza risentirne fu “stuprato” dalle sue due figliole.
    Strano contrappasso, poiché la violenza è distruzione; anche morte, come ben sperimentò la poveretta stuprata a Ghibea. Definire “violenza” l’atto sessuale inconsapevole di Lot mi sembra offensivo verso le vittime di stupro. Lot, in quei “terribili” momenti dovette provare piacere per ingravidare le ragazze e senza neppure l’angoscia di sapere, a causa dei fumi dell’alcol, che faceva sesso incestuoso; poi non ricordò più nulla. Le vittime di stupro, invece, ricordano eccome.
    Eppure un reale contrappasso poteva avvenire realmente dopo la sua fuga. A Zoar, forestiero come i due viandanti di Sodoma, era del tutto possibile che la gentaglia del luogo volesse fare la festa proprio a lui. Solo così avrebbe effettivamente provato sulla propria pelle ciò che intendeva riservare alle sue figlie; e questo, di sicuro, sarebbe stato un contrappasso commisurato a quel tipo di colpa (qualora davvero, per l’autore biblico, far stuprare delle donne al posto di uomini fosse una colpa).

    Se Lot fosse andato alla ricerca di gente pacifica invece di chiudersi fra quelle montagne avrebbe potuto maritare le ragazze e sarebbe stato il capostipite di una stirpe onorata; ma negò una discendenza a sé e alle sue figlie, e fu castigato avendo proprio da loro una stirpe frutto d’incesto. Questa effettiva colpa di Lot non è evidenziata nella Scrittura poiché essa era già palese agli occhi di ogni antico israelita, e lo inorridiva poiché nella sua cultura la prosecuzione della stirpe era più importante della vita stessa; è invece soltanto l’uomo moderno, erede del pensiero illuminista, che inorridisce sull’uso di persone come scudi umani.
    Come dici, la Bibbia non va letta in 2D, ma io aggiungerei che non va nemmeno letta attraverso le lenti della modernità.

    Comunque, volendo accettare (con grosse riserve) che l’offerta fatta da Lot ai sodomiti di stuprare le due ragazze fosse stato un atto abominevole anche agli occhi dei redattori biblici, allora a Lot andrebbero imputate due colpe. La prima sarebbe appunto la sua proposta di stupro; la seconda l’aver disprezzato quel medesimo dono che Dio aveva promesso a suo zio Abramo: una discendenza.
    Due le colpe, se davvero furono due, e manifestate in situazioni e tempi diversi. Una sola, però, fu la punizione. Eppure la giustizia divina non è mai distratta; a Davide, per esempio, Dio non fece sconti nella vicenda di Uria, dove in quell’occasione due furono i suoi crimini: adulterio e omicidio. Per ciascuno di questi peccati egli ebbe una punizione di reale contrappasso: per l’atto adulterino furono possedute da un altro uomo le sue concubine, per l’assassinio morì suo figlio. Poiché Lot ebbe un solo castigo, credo che delle due imputazioni a lui mosse una debba cadere; quale? Lo stupro delle sue figlie, un crimine palese ma per la sensibilità odierna, oppure l’essersi negato una discendenza, un atto chiaramente oltraggioso nella cultura biblica?

    Bisogna inoltre osservare che gli scrittori biblici non si sono limitati a descrivere i fatti, dai quali è più facile trarre un giudizio, ma hanno riportato le bieche parole di Lot e poi, nell’altro episodio speculare, le hanno ripetute pari pari per bocca del vecchio di Ghibea come fossero uno slogan pubblicitario:
    «No, fratelli miei, non fate del male! Sentite, io ho due figlie che non hanno ancora conosciuto uomo; lasciate che ve le porti fuori e fate loro quel che vi piace, purché non facciate nulla a questi uomini, perché sono entrati all’ombra del mio tetto». (Genesi 19:7-8, CEI)
    «No, fratelli miei, vi prego, non fate una cattiva azione; dal momento che quest’uomo è venuto in casa mia, non commettete quest’infamia! Ecco qua mia figlia che è vergine, e la concubina di quell’uomo; io ve le condurrò fuori e voi abusatene e fatene quel che vi piacerà; ma non commettete contro quell’uomo una simile infamia!». (Giudici 19:23-24, NR)

    Il ladro ruba ma non per questo farebbe l’apologia del furto, mentre i due ospitanti che pronunciano le frasi sopra riportate fanno appunto l’apologia moralistica delle loro scelte. Essi sostengono che sodomizzare uomini loro ospiti sarebbe un’infamia (e su ciò siamo tutti d’accordo) ma si appellano alla coscienza dei bruti affinché accettino in alternativa un’azione che, per loro, non sarebbe un’infamia: stuprare due donne! Se la Torah è insegnamento, con tali panegirici i suoi redattori confondono e creano equivoci.
    La similitudine fra i due racconti comprende la circostanza che il vecchio di Ghibea era pure lui, come Lot, un forestiero; e a suo carico non ci fu punizione di sorta nonostante avesse proposto lo stupro non solo di sua figlia ma anche della moglie del levita, pure lei sua ospite! L’atto (per noi criminale) del marito della donna che la fece stuprare a morte al posto suo, a maggior ragione avrebbe meritato un accenno alla sua punizione. Questi due personaggi appaiono assai più colpevoli di Lot, sia perché passarono dalle parole ai fatti (in più il marito si rivela disumano verso la donna non soccorrendola dopo il fattaccio e facendo scempio del suo cadavere) sia perché la vittima era a sua volta un’ospite Tali individui sono chiaramente imputabili dal nostro punto di vista ma… come la vede lo scrittore biblico?
    Quest’altra storia è la copia carbone di quella di Lot; se davvero nella vicenda di Lot si parla pure di un giusto castigo (il patriarca “violentato” dalle sue figlie), diversamente in quella di Ghibea i due personaggi non soltanto la passano liscia, ma ottengono da Dio e da Israele quella giustizia da essi stessi invocata.

    L’uso di figli come oggetti sacrificabili per necessità è presente in altri episodi biblici, come in quello che richiama il noto giudizio di Salomone su due donne che si contendevano un bambino ma in quest’altro caso il re è Ieoram e il motivo della contesa ci fa rabbrividire:

    “Mentre il re di Israele passava sulle mura, una donna gli gridò contro: «Aiuto, mio signore re!». Rispose: «Non ti aiuta neppure il Signore! Come potrei aiutarti io? Forse con il prodotto dell’aia o con quello del torchio?». Il re aggiunse: «Che hai?». Quella rispose: «Questa donna mi ha detto: Dammi tuo figlio; mangiamocelo oggi. Mio figlio ce lo mangeremo domani. Abbiamo cotto mio figlio e ce lo siamo mangiato. Il giorno dopo io le ho detto: Dammi tuo figlio; mangiamocelo, ma essa ha nascosto suo figlio».” (2Re 6 :27-29, CEI)

    1. Non c’entra nulla il pensiero illuminista, anche le fonti antiche interpretano Lot come un personaggio a tratti mediocre e a tratti decisamente negativo. Il Midrash ad esempio afferma che Dio si adirò quando Lot offrì le sue figlie agli uomini di Sodoma, e disse (con feroce ironia): “Tu vuoi questo? Io te le riserverò per te” (in riferimento al successivo incesto).

      Addirittura cerchi di dimostrare che i figli nell’antico Israele fossero tenuti in scarsissimo conto citando il caso di Salomone, il quale non intendeva davvero tagliare in due il bambino, ma solo far emergere la reazione della vera madre (la quale non a caso era pronta a cedere il figlio all’altra donna pur di non farlo uccidere!), e il caso orrido dei bambini oggetto di cannibalismo, che la Bibbia cita più volte come esempio aberrante del massimo livello di degrado raggiunto dalle popolazioni abbrutite da un lungo assedio (nota che il re si straccia le vesti quando ode il terribile racconto).

      Tornando al caso di Lot, la possibilità che egli fosse stuprato da una folla inferocita avrebbe rappresentato una punizione non commisurata, in quanto egli aveva solo proposto alla folla – allo scopo di placarla – di offrire le sue figlie, senza però arrivare a farlo realmente (visto il rifiuto dei sodomiti). La Bibbia non ci presenta mai punizioni per delle azioni che non vengono realmente compiute, ma solo proposte. La punizione di Lot non sta certo nel dolore fisico, ma nell’umiliazione e nel diventare il padre delle nuove Sodoma e Gomorra.
      Neppure il caso della concubina di Givah può essere citato per affermare che offrire le figlie a una folla di bruti fosse cosa buona e giusta. Il testo ci descrive il levita come un personaggio insensibile e ripugnante, come ripugnanti sono le soluzioni adottate dagli uomini d’Israele in seguito al massacro della tribù di Binyamin. Non a caso il racconto è incorniciato all’inizio e alla fine dalla frase “Non c’era un re in Israele, ognuno faceva ciò che pareva giusto ai propri occhi”. La storia è all’insegna del relativismo morale ed è stata raccontata con lo scopo principale di suscitare il nostro disgusto.

  6. Cito le tue parole:

    “A volte il testo biblico è esplicito nel lodare e nel condannare, altre volte il punto di vista morale del narratore è affidato al sottotesto, e ci sono tanti esempi che potrei citare. Il testo non condanna esplicitamente Sarah per il modo in cui tratta la schiava Hagar, ma il sottotesto la paragona (nemmeno troppo implicitamente) agli Egizi che opprimono gli Israeliti in Esodo. Yaakov non viene condannato per l’episodio del furto della benedizione, eppure questo atto lo perseguita per tutta la vita facendogli comprendere il suo errore (nel testo ebraico è molto più evidente). Leggendo il racconto dello stupro di Dinah, sembra quasi che Shimon e Levì siano dei guerrieri eroici da lodare, finché molti capitoli più avanti Yaakov non li condanna duramente per la loro violenza. Lo stesso vale per David, che oltre al caso più grave e palese della vicenda di Uriah, compie anche altre azioni che la Bibbia non approva, ma che non sono criticate in modo altrettanto esplicito (vicenda di Naval e Avigail; il periodo buio a Tziklag; passività nella vicenda dello stupro di Tamar; rifiuto di mettere a morte Avshalom). Insomma, la Bibbia è scritta in 3D non in 2D, e per comprenderla bisogna indossare gli occhiali giusti.”

    Non sono d’accordo e tengo a ripetere quanto ho affermato. Sara era legittimata a maltrattare la sua schiava; la frusta sugli schiavi era ovunque, nel mondo antico, un diritto dei padroni, sancito nella Torah sugli schiavi stranieri (Levitico 25:39-46).
    Giacobbe non è condannato per il furto della benedizione perché ciò era già nei piani di Dio:

    “Il Signore le rispose:
    «Due nazioni sono nel tuo seno
    e due popoli dal tuo grembo si disperderanno;
    un popolo sarà più forte dell’altro
    e il maggiore servirà il più piccolo».” (Genesi 25:23, CEI)

    “Non era forse Esaù fratello di Giacobbe? – oracolo del Signore – Eppure ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù.” (Malachia:2-3, CEI)

    Riguardo allo stupro di Dina, Giacobbe redarguisce immediatamente la bravata dei suoi due figli come azione insensata perché essa avrebbe provocato contro il suo clan la reazione armata della gente locale (Genesi 34:30). Quel rimprovero non li fa apparire come eroi ma come stupidi. In seguito, Abramo condannò la loro violenza e li maledisse.

    Davide, a eccezione del caso di Uria e del censimento non autorizzato, compì altre azioni che noi, gente moderna, non apprezziamo ma che invece la Bibbia approva: sulla vicenda di Nabal e Abigail lo scrittore biblico giustifica le ragioni di Davide che pretendeva un compenso (oggi diremmo “il pizzo”) da Nabal per non aver rapinato i suoi pastori e il suo gregge; così l’autore fa parlare uno di quei pastori:

    “Veramente questi uomini sono stati molto buoni con noi; non ci hanno molestati e non ci è venuto a mancare niente finché siamo stati con loro, quando eravamo in campagna. Sono stati per noi come un muro di difesa di notte e di giorno, finché siamo stati con loro a pascolare il gregge.”

    Il periodo trascorso da Davide a Ziklàg fu buio per la nostra sensibilità ma luminoso dal punto di vista biblico: Davide, al servizio con la sua banda di un re filisteo, aveva il compito di assalire le popolazioni nemiche al confine con quel regno (a eccezione degli israeliti); lui, invece, aggrediva genti alleate dei filistei e non lasciava superstiti affinché non ci fossero testimoni scomodi. In un suo salmo così motiva il suo modo di trattare i malvagi filistei:

    “Con il pio ti mostri pio, con il prode ti mostri integro; con il puro ti mostri puro,
    con il tortuoso ti mostri astuto.” (2Samuele 22:26-27)
    Le traduzioni di questo passo, certo imbarazzante, ne ammorbidiscono i toni, meno forse la traduzione delle ed. Paoline: “con il perverso ti mostri subdolo”. Del resto, anni prima, Sansone non era stato da meno verso i filistei: per una scommessa persa con trenta di loro doveva consegnare a ciascuno di quelli una veste preziosa. Si deve riconoscere che in quell’occasione era stato ingannato, ma andò forse a svaligiare un bazar per procurarsi i trenta abiti? Con l’aiuto dello spirito divino ammazzò e rapinò trenta viandanti, si presume filistei, e si impossessò delle loro vesti per pagare quel pegno.
    Ogni azione contro i nemici d’Israele non è mai subdola per gli scrittori biblici. Del resto, Dio stesso non era stato troppo corretto verso gli egiziani, torturandoli con dieci piaghe allo scopo di mostrarsi potente agli occhi del suo popolo. Il faraone aveva il cuore ostinato, tuttavia per sei volte quel cuore si ammorbidì vedendo che il suo regno andava in pezzi, ma ogni volta che il faraone si arrendeva Dio induriva quel cuore allo scopo di reiterare i suoi flagelli. Uguale trattamento riservò al re Sicon: intendeva sterminare il suo popolo ma prima creò il casus belli mandandogli messaggeri israeliti per chiedergli il permesso di attraversare pacificamente il suo territorio; contestualmente, intervenne sulla sua mente perché rifiutasse (Deuteronomio 2:30).

    Riguardo alla passività di Davide sullo stupro di Tamar, perpetrato dal suo figlio primogenito, non si può dire che la giustizia cui egli non volle dare corso venne a mancare, perché si attuò comunque ma per vie tragiche e dolorose per Davide: Amnòn, scampato alla giustizia non sfuggì però alla vendetta del suo fratellastro Assalonne. Anche quest’ultimo non fu giustiziato, tuttavia morì come ribelle per aver tentato l’usurpazione del trono. Casualità in queste morti, o giustizia divina? La vita di Davide non era affidata al caso ma tutto era nei disegni di Dio:

    “… che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione.”
    (Esodo 34:7, CEI)

  7. Chiaramente non posso in un semplice commento parlare di tutti gli episodi citati, che meritano trattazioni adeguate (e alcuni dei quali sono già stati commentati in altri articoli su questo sito) e che non sono pertinenti a questo articolo.

    Mi scoraggia però l’incipit della tua obiezione: “Giacobbe non è condannato per il furto della benedizione”. Come non è condannato? La condanna del suo inganno diventa uno dei temi dominanti della Genesi quasi fino alla conclusione. Non in modo esplicito, nel senso che il testo non ci dice mai “Yaakov fece ciò che è male agli occhi di Dio”, o altre frasi simili, questo no. Ma per altre vie, il testo ci fa capire più volte che l’inganno compiuto rappresenta il “peccato originale” da cui tutte le disgrazie successive scaturiscono. A cominciare dallo “scambio nel buio” di Rachel e Leah (che rievoca proprio il camuffamento di Yaakov), passando poi per gli inganni compiuti da Lavan, la misteriosa lotta con l’angelo, la sottomissione a Esav con tanto di frase evocativa (“Prendi, ti prego, la mia benedizione!”) fino all’inganno di cui Yaakov è vittima a causa dei figli. Ci sarebbe moltissimo da dire a riguardo, ma ancora una volta mi permetto di consigliare una lettura più profonda della Bibbia, che non va letta come una sorta di “raccolta di vite dei santi” in stile medievale.

  8. Riguardo a Giacobbe sostieni che “La condanna del suo inganno diventa uno dei temi dominanti della Genesi quasi fino alla conclusione.” Questa tesi, però, fa sorgere un paradosso: se si deve parlare di peccato per il quale egli fu condannato, occorre osservare che a commetterlo fu anche Dio e ancora prima che Giacobbe nascesse; lo commise da quando i due fratelli, per sua volontà, si urtavano nel ventre materno. Preoccupata, Rebecca andò a consultarlo:

    “Il Signore le rispose: «Due nazioni sono nel tuo seno e due popoli dal tuo grembo si disperderanno; un popolo sarà più forte dell’altro e il maggiore servirà il più piccolo».” Genesi 25:22-23

    Quando i gemelli nacquero Giacobbe teneva in mano il calcagno di Esaù, da cui deriverebbe il suo nome che per alcuni si può tradurre anche come “soppiantatore” e per altri “possa Dio proteggere”.
    Complice di Dio in questo presunto peccato sarebbe stata poi Rebecca che architettò e pose in essere il piano per ingannare suo marito Isacco obbligando Giacobbe a obbedirle e assumendosi l’onere della maledizione che Isacco avrebbe potuto lanciare qualora si fosse accorto dell’inganno.

    “Ma sua madre gli disse: «Ricada su di me la tua maledizione, figlio mio! Tu obbedisci soltanto e vammi a prendere i capretti»”.(Genesi 27: 13, CEI)

    Sono d’accordo che la Bibbia, e cito le tue parole: «non va letta come una sorta di “raccolta di vite dei santi” in stile medievale.» In effetti, non penso a Giacobbe come a un santo medievale roso dai rimorsi e perseguitato dalle conseguenze della sua colpa. Questa se mai mi sembra sia la tua lettura. Diversamente da te, nelle disgrazie che gli capitarono, io non ravviso un contrappasso per il suo ipotetico peccato ma occasione d’insegnamento per meglio apprendere le norme della Torah.
    La prima disgrazia di Giacobbe: fu ingannato e dovette sposare anche Lia, la sorella brutta della splendida Rachele di cui lui era innamorato. La cultura biblica mette in guardia dalle scelte passionali (un esempio fra tanti: Salomone che rincitrullì per alcune delle sue mogli con la conseguenza di tradire Dio); la Torah consente la poliginia, ma esige il rispetto della consuetudine secondo cui la prima moglie deve essere scelta – oculatamente – dai genitori. Per questa ragione la Torah assegna i diritti ereditari ai figli della prima moglie (anche se odiata ma frutto del matrimonio combinato) e non ai figli delle mogli successive frutto della passione. Giacobbe, a causa delle circostanze (era in fuga) ebbe occasione di scegliersi lui la sposa, una donna di cui era innamoratissimo. Ciò era male, molto male. Dio, che non era assente da quelle camere da letto da cui sarebbe sorto il popolo della sua promessa, lasciò che avesse luogo l’inganno escogitato dal padre delle ragazze. Così Giacobbe si ritrovò con due mogli, di cui però ne amava solo una. In seguito Dio, con la legge mosaica, avrebbe proibito il matrimonio poligamico con due sorelle, ciò allo scopo che esse non fossero in competizione sul piano della maternità. In questo caso, però, fu Dio stesso a creare quella competizione, rendendo sterile per parecchi anni la bella Rachele e fertile la detestata Lia. Morale: la poliginia non è concessa per il trastullo dell’uomo ma per la procreazione.

    Altra disgrazia: gli inganni del suocero Labano che lo sfruttò per quattordici anni; ma Giacobbe non fu vittima passiva di quei raggiri. Nei successivi sei anni fu lui a truffare Labano e divenne proprietario di moltissimo bestiame. Allora però le cose volsero al peggio:

    “Ma Giacobbe venne a sapere che i figli di Làbano dicevano: «Giacobbe si è preso quanto era di nostro padre e con quanto era di nostro padre si è fatta tutta questa fortuna». Giacobbe osservò anche la faccia di Làbano e si accorse che non era più verso di lui come prima.” (Genesi 31:1-2, CEI)

    Giacobbe fu costretto a fuggire, ma per andare dove? Dio gli parlò comandandogli di tornare in Canaan e assicurandogli la sua protezione:

    “Il Signore disse a Giacobbe: «Torna al paese dei tuoi padri, nella tua patria e io sarò con te».” (Ibidem, v.3)

    C’è poi la misteriosa lotta con l’angelo. Non fu una disgrazia ma una attestazione di essere lui il prescelto, poiché l’angelo gli disse:

    «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!» (Genesi 32:29, CEI)

    Quali uomini aveva vinto Giacobbe? Hittiti, filistei, ammoniti? I soli uomini da lui sconfitti erano stati suo padre, cieco di mente a preferire Esaù; poi quest’ultimo che non meritava certo con la sua discendenza la parte più fertile della Palestina; infine Labano che aveva approfittato della sua condizione di fuggiasco per sfruttarlo.
    Ultima disgrazia: la sottomissione a Esaù. Giacobbe tornò nella sua terra per volontà di Dio, ma non ci sarebbe andato di sua iniziativa sapendo che suo fratello si sarebbe vendicato. Non pensava affatto che Esaù avesse ragione, e di certo lo disprezzava per come gli aveva ceduto la primogenitura. Il solo sentimento che provava era la paura e pregò Dio di proteggerlo, ricordandogli che era stato proprio lui a metterlo in quella situazione, sebbene con pieno diritto poiché tutta la ricchezza che adesso possedeva era dovuta alla sua benevolenza:

    “Salvami dalla mano del mio fratello Esaù, perché io ho paura di lui: egli non arrivi e colpisca me e tutti, madre e bambini!” (Genesi 32:12, CEI)

    Giacobbe mandò avanti i suoi servi con circa 500 animali come dono per ammansire Esaù, che gli andava incontro con un piccolo esercito di quattrocento uomini armati. Quando s’incontrarono, Giacobbe non chiese perdono, e tantomeno gli restituì la benedizione secondo quanto scrivi: (“Prendi, ti prego, la mia benedizione!”). Non credo che le benedizioni fossero oggetti da potersi restituire, di certo il passo biblico si riferisce esclusivamente al dono del bestiame.

    Molti anni dopo Giacobbe fu ingannato dai suoi figli che vendettero Giuseppe, ma anche questa storia ha una conclusione felice. Tutta la vita di Giacobbe è certo costellata d’inganni; ma quelli da lui subiti non rappresentano un castigo, sia perché Dio lo aiutò a gabbare anche Labano, quindi a reiterare il suo presunto peccato, sia perché il vero attore di tali inganni è proprio Dio, poiché per mezzo di essi tutti gli eventi si sono svolti secondo i suoi disegni.

    1. Presumo tu legga la Bibbia esclusivamente in italiano, perché in ebraico il fatto che Yaakov sia perseguitato per tutta la vita a causa del suo inganno non è una teoria, ma un fatto lampante, riconosciuto da qualsiasi studioso serio del pshat. Ma questo messaggio comunque si deduce sufficientemente anche dalle traduzioni. Dio non ha nulla a che fare con l’inganno di Rivkah e Yaakov: l’oracolo sul dominio del figlio più giovane sul più anziano non giustifica il ricorso a un simile sotterfugio, che la Torah condanna a più riprese, fino al punto che ci si sorprende che il testo sacro della nazione di Israele dipinga in modo tanto sfavorevole il fondatore della nazione stessa, per quanto egli comunque si redima e riesca a conquistare con il giusto merito ciò che aveva usurpato con l’inganno.

  9. Scrivi: “Ci si sorprende che il testo sacro della nazione di Israele dipinga in modo tanto sfavorevole il fondatore della nazione stessa”. Sfavorevole? Io direi l’esatto contrario. Giacobbe è il personaggio più ammirevole della Sacra Scrittura, un’icona non soltanto religiosa ma rappresentativa dell’evoluzione dolorosa e comunque inarrestabile del pensiero umano. Nell’idea eliocentrica, per esempio, vedo come simbolo Giacobbe, perché quell’idea alla fine ha vinto su quella geocentrica, il cui simbolo è Esaù, protetta dall’ottusità delle istituzioni, in altre parole da Isacco.

    Le vicissitudini di Giacobbe non erano castighi per la sua colpa, giacché non ha avuto colpe da scontare ma ostacoli da superare, ossia impedimenti messi apposta da Dio affinché lui, affrontandoli, potesse meritare di essere il degno fondatore della nazione d’Israele. Che senso avrebbe allora la lotta con Dio? Che significato avrebbe la frase: hai lottato con Dio e hai vinto? Queste parole non si riferiscono di certo alla lotta fisica, tanto più che a uscirne ammaccato fu Giacobbe e comunque sarebbe risibile pensare sul serio al significato letterale. Giacobbe lottò realmente con Dio in ben altro ambito. Dio non volle concedergli privilegi affinché questi lui se li conquistasse con le proprie forze e il proprio ingegno.

    La lotta con Dio: mentre i due fratelli erano nel seno materno Dio preferiva Giacobbe, e non per capriccio come invece era per Isacco i cui capricci davano la preferenza all’insulso Esaù. Dio vedeva giusto, e tuttavia volle che a nascere per primo e quindi ad accaparrarsi i diritti della primogenitura fosse, dei due gemelli, quello stupido. Ma Giacobbe seppe rimediare alla passività di Dio appropriandosi di quei diritti con l’intraprendenza e con un piatto di lenticchie.
    Nondimeno Isacco, cieco anche di cervello ma detentore del potere patriarcale, volle ugualmente dare la sua benedizione a Esaù. Benedizioni e maledizioni, fra i patriarchi, non costituivano atti formali poiché per mezzo di essi si concretava la volontà divina. Perché allora Dio non impose a Isacco di benedire lo scaltro Giacobbe, e quindi la sua discendenza, invece dello stolto Esaù con la sua stirpe? Per Dio non faceva differenza? Davvero avrebbe lasciato che il suo grandioso progetto fosse gestito solo dal caso, considerando che il caso in quel frangente favoriva l’umana stupidità?

    La miopia visiva di Isacco è espressione della sua miopia mentale, e Isacco simboleggia la cecità delle istituzioni contro cui gli uomini capaci hanno non solo il diritto ma anche il dovere di lottare con ogni mezzo. Giacobbe non dovette usare la violenza ma poté ricorrere al raggiro, e Isacco meritava di essere raggirato. Affermare che il gesto di Giacobbe è deplorevole equivale a deplorare Galileo per aver pubblicato le sue tesi eliocentriche violando così l’ottusa posizione geocentrica degli accademici e della Chiesa.
    Galileo fu costretto all’abiura, mentre Giacobbe fu costretto a fuggire ormai in miseria, lui che era di famiglia ricchissima, trovando rifugio dallo zio Labano che lo sfruttò per vent’anni. Gli uomini innovatori devono battersi e soffrire se vogliono affermare i propri talenti e, come si dice, il tempo è galantuomo. Col passare degli anni, infatti, così come prevalse l’idea eliocentrica, anche Giacobbe ebbe la sua riscossa diventando ricco a spese di Labano, il quale meritava gli si restituisse il raggiro di aver propinato in moglie al nipote anche l’altra figlia, quella brutta, al prezzo di sette anni di lavoro senza salario.

    Non conosco l’ebraico, ma dopo la lotta con l’angelo Dio volle che Giacobbe cambiasse nome; il nome nuovo era come una medaglia, un attestato di riconoscimento del suo valore: Israele, colui che contende con Dio.

    1. Una visione molto personale che non condivido in quanto il testo biblico è molto chiaro sulla colpa di Yaakov. Nota inoltre che la benedizione strappata a Esav era solo quella relativa alla prosperità materiale. La vera benedizione, quella che nel testo è chiamata “benedizione di Avraham”, cioè l’investitura del ruolo di depositario della missione divina, viene conferita a Yaakov soltanto dopo l’inganno, quando egli sta per fuggire a Charan. Dunque anche il cieco Yitzchak sapeva che la vera benedizione spettava a Yaakov, per quanto egli desiderasse donare la maggiore prosperità economica al suo figlio prediletto Esav.
      La questione potrà essere oggetto di un prossimo articolo.

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