“Scintille di Torah” è la raccolta di brevi commenti alla parashàh (porzione settimanale di Torah/Pentateuco secondo il ciclo di lettura annuale ebraico) che pubblichiamo ogni settimana sulla nostra pagina Facebook.
Di seguito troverete tutti i commenti al Libro del Levitico pubblicati nel 2019.
VAYIKRÀ
“Quando un principe ha peccato, violando per inavvertenza un divieto di HaShem, il suo Dio, e così si è reso colpevole, quando il peccato commesso gli è noto, porterà come offerta un capro maschio senza difetto” (Levitico 4:22-23).
Studiando il Levitico, l’anno scorso abbiamo parlato di alcuni tipi di sacrifici e offerte nel Santuario che non hanno nulla a che fare con il peccato o con l’espiazione: l’offerta elevata, quella farinacea e il sacrificio di pace. Questa volta affrontiamo il tema del vero “sacrificio per il peccato”: il Korban Chatat.
È interessante notare che la Torah prescriva quattro tipi diversi di questa categoria di offerta, a seconda di chi ha compiuto il peccato: un sacerdote, l’intera collettività, un capo (o “principe”) o un uomo comune. Non esiste autorità o figura sociale che possa essere considerata infallibile o immune alla trasgressione: anzi, quanto più è alta l’autorità di chi ha peccato, tanto più sarà alto il valore dell’offerta richiesta.
Bisogna notare inoltre che il Korban Chatat ha il potere di espiare soltanto colpe compiute per “inavvertenza”, ossia, secondo i Maestri, trasgressioni commesse per ignoranza o per pura negligenza. Al contrario, un peccato volontario non può essere espiato con un sacrificio o con qualsiasi tipo di rituale.
TZAV
“HaShem disse ancora a Moshè: «Se qualcuno commetterà una mancanza e peccherà per errore riguardo a cose consacrate ad HaShem, porterà ad HaShem, in sacrificio di riparazione, un ariete senza difetto” (Levitico 5:14-15).
Proseguiamo il nostro discorso sui sacrifici parlando di un altro tipo di offerta per il peccato: il Korbàn Ashàm, o “sacrificio di riparazione”. Come nota Rav Joshua Berman, il termine “asham”, in contesti non sacri, indica un’indennità o una multa da pagare (Numeri 5:7).
Nel caso in cui una persona si appropri inavvertitamente di un oggetto consacrato, arrecando così un danno al Santuario, la Torah comanda al responsabile di offrire questa tipologia di sacrificio. La carne dell’animale sacrificato, eccetto il grasso e alcune parti da bruciare interamente, veniva consumata dai sacerdoti (Levitico 7:1-6).
Bisogna però notare che l’offerta di un Korban Asham è richiesta anche nel caso in cui qualcuno pecchi contro il suo prossimo con la frode, con l’estorsione o con il falso giuramento (5:20-26). Oltre a restituire alla vittima quanto dovuto (più un’indennità), il colpevole dovrà anche presentare un sacrificio di riparazione al Santuario, come a dire che l’offesa fatta a un altro essere umano è anche una violazione dell’integrità del culto di Dio.
SHEMINÌ
“HaShem disse a Moshè e ad Aaron: «Riferite agli Israeliti: Questi sono gli animali che potrete mangiare fra tutte le bestie che sono sulla terra»” (Levitico 11:1).
In questa parashah troviamo le origini della kasherut, il complesso sistema di norme alimentari dell’Ebraismo, che divide le specie animali in “permesse” e “vietate”.
In passato (vedi l’articolo “Il cibo secondo la Torah“) abbiamo già parlato dei motivi che si nascondono dietro questa distinzione secondo i pensatori rabbinici classici. In sintesi, si va dall’opinione minoritaria che vede la kasherut come un insieme di norme per preservare la salute fisica (Maimonide), a quella dei mistici che ad essa attribuiscono significati esclusivamente spirituali (Abravanel). C’è poi chi rifiuta qualsiasi spiegazione affermando che tali precetti derivino dall’imperscrutabile volontà divina (Rashi).
Un’opinione differente, che solo di rado viene menzionata, è quella di Ibn Ezra, secondo cui le regole alimentari imposte agli Israeliti rappresentano una sorta di “codice di comportamento regale”. In quanto “popolo santo” (cioè “distinto”), Israele deve astenersi da qualsiasi cibo che possa essere ritenuto ripugnante dai popoli vicini, preservando un’alta dignità.
In effetti, oggi l’archeologia conferma che gli animali proibiti dalla Torah (con la parziale eccezione del maiale) non facevano parte della “dieta standard” delle nazioni vicine a Israele. È possibile quindi che la spiegazione di Ibn Ezra rifletta almeno in parte l’intento della legge biblica.
TAZRIA
“E disse HaShem a Moshè e ad Aharon: «Quando un essere umano ha sulla pelle del corpo un gonfiore o una pustola o una macchia bianca che faccia sospettare una piaga di tzaraat, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aharon o da qualcuno dei sacerdoti, suoi figli” (Levitico 13:1-2).
La parashah di questa settimana ci porta in un mondo sgradevole e apparentemente poco spirituale o edificante: quello delle leggi di purificazione relative ad alcune condizioni fisiologiche e malattie. In particolare, si parla della tzaraat, una misteriosa patologia cutanea che dava al corpo un aspetto simile a quello di un cadavere (Numeri 12:12).
Nel tentativo di dare a queste leggi un significato più educativo e mistico, molti affermano che la tzaraat non sia da intendere come una malattia nel senso comune del termine, ma come la manifestazione fisica di una problematica spirituale. La tzaraat non sarebbe quindi la lebbra o la vitiligine, ma un fenomeno soprannaturale che deriva da una condizione dell’anima.
L’idea si scontra però con il fatto che, in questa stessa parashah, la Torah ci parla anche dell’impurità legata al parto, alle mestruazioni, al liquido seminale e alla gonorrea: tutti elementi molto concreti e reali. Anche la tzaraat sembra dunque appartenere all’ambito dei fenomeni biologici, seppure la sua identificazione con una precisa patologia sia controversa.
Ciò tuttavia non significa che le leggi di purificazione della tzaraat siano una sorta di forma primitiva di terapia contro questa piaga. La purificazione, infatti, segue la guarigione, e il sacerdote biblico non svolge mai il compito di un medico. A questo proposito, Yehezkel Kaufmann spiega:
“La caratteristica distintiva delle purificazioni bibliche rispetto a quelle del paganesimo è che esse non vengono eseguite allo scopo di bandire il danno o la malattia. Il pagano cerca di evitare danni, le sue purificazioni sono in effetti una battaglia contro forze funeste che minacciano uomini e dèi. Le purificazioni bibliche mancano completamente di questo aspetto. Le lusinghe non hanno alcun ruolo nel guarire i malati. La donna che ha partorito, il lebbroso, l’uomo affetto da gonorrea e la casa ‘lebbrosa’ sono tutti purificati dopo l’evento o la malattia”.
METZORÀ
“Questa è la legge per ogni sorta di infezione di tzaraat” (Levitico 14:54).
Questa settimana proseguiamo il discorso sulla misteriosa patologia cutanea denominata “tzaraat”. Nella tradizione rabbinica, i Maestri affermano che tale afflizione colpisca coloro che hanno compiuto alcuni tipi di peccati, in particolare i colpevoli di “lashon harà” (maldicenza). Nel Levitico, tuttavia, il testo non associa a questa malattia alcuna causa morale o spirituale. Da altre fonti bibliche, però, è possibile dedurre quale sia questa causa.
Nella Bibbia si parla almeno di quattro personaggi che si ammalarono di tzaraat:
1. Secondo Numeri 12:9, la profetessa Miriam, sorella di Moshè, fu punita da Dio con la tzaraat per aver negato la superiorità della vocazione profetica di suo fratello rispetto alla sua (e a quella di Aharon).
2. Anche Naaman, capo dell’esercito della Siria, era malato di tzaraat (2Re 5). Egli guarì dopo aver accettato il consiglio dei suoi servi ed essersi umiliato lavandosi nelle acque del Giordano. Da ciò (e dall’intero racconto) deduciamo che la causa della sua piaga fosse legata a una mancanza di umiltà.
3. Gechazì, servo di Eliseo, agì contro il volere del suo padrone per ottenere un guadagno da Naaman, e fu per questo punito proprio con la tzaraat (2Re 5:20-27).
4. Il re Uzziah, secondo 2Cronache 26, entrò nel Tempio e offrì incenso, benché la Torah consenta solo ai sacerdoti di compiere tale rito. Perciò egli fu colpito dalla tzaraat.
Che cosa hanno in comune questi esempi? In tutti i casi citati, la tzaraat sembra essere causata dall’orgoglio che conduce l’uomo ad andare oltre i propri limiti, superando i confini della legge e dell’etica sociale. Chi pretende di essere superiore agli altri – senza averne diritto – rischia di essere colpito sulla propria pelle, la barriera primaria che ci separa dal mondo esterno.
ACHAREI MOT
“E se qualcuno tra i figli d’Israele o tra gli stranieri che risiedono fra voi prende alla caccia un animale o un uccello che si può mangiare, spargerà il suo sangue e lo coprirà di terra, perché è la vita di ogni carne: il suo sangue è la sua vita. Perciò ho detto ai figli d’Israele: Non mangerete il sangue di alcuna carne” (Levitico 17:13-14).
La proibizione di nutrirsi di sangue, espressa nel Levitico in maniera molto severa, era già stata introdotta nella Genesi, subito dopo il Diluvio. Il sangue, in quanto fluido vitale, rappresenta l’essenza sacra di ogni creatura, e l’uomo non può quindi appropriarsene.
In questi versi troviamo però qualcosa di nuovo: il precetto di versare il sangue e di coprirlo con la terra. Secondo Ibn Ezra, questo comando ha lo scopo di evitare che qualcuno, vedendo del sangue versato al di fuori del Santuario, possa credere erroneamente che si tratti di un sacrificio compiuto in onore di altre divinità. Tale interpretazione sembra però alquanto riduttiva.
L’espressione “spargerà il suo sangue” (veshafakh et-damò) richiama l’idea dell’omicidio, definito “spargimento di sangue” (Genesi 9:6).
Anche l’espressione “coprire il sangue” ricorda lo stesso contesto: essa è infatti impiegata altrove per indicare l’atto di nascondere un crimine (Genesi 37:26; Ezechiele 24:7). Chi uccide una bestia per cibarsene sta forse commettendo un delitto?
Sebbene la Torah consenta (con alcune importanti limitazioni) di nutrirsi di carne, il testo biblico non guarda con superficialità all’atto di uccidere un animale: si tratta pur sempre di una vita che si estingue, e un simile atto richiede una certa riverenza. L’uomo moderno, abituato ai supermercati e ai fast-food, ha perso tale sensibilità. La Torah, tuttavia, ci ricorda di riconoscere la sacralità della vita e ci esorta a non considerarci i padroni dell’essenza che anima le altre creature.
KEDOSHIM
“Non ti vendicherai e non coverai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso” (Levitico 19:18).
Hanno fatto scalpore le recenti affermazioni di un Ministro dell’attuale Governo italiano, secondo cui il precetto dell’amore per il prossimo (un precetto dell’Ebraismo, ricordiamolo) sarebbe da intendere come “l’amore per la prossimità”, cioè per chi è più vicino, in particolare i propri connazionali. Come stanno realmente le cose?
Il termine “rea’”, tradotto con “prossimo”, non indica necessariamente di per sé una particolare affinità o affiliazione. Anche gli Egizi, per gli Ebrei schiavi del Faraone, sono chiamati “il vostro prossimo” (Esodo 11:29). Talvolta, il termine si può tradurre semplicemente con “l’altro” (Genesi 11:7; Esodo 18:16). Tuttavia, è vero che, in questo contesto, l’espressione “i figli del tuo popolo”, che compare subito prima, limita il comandamento a un preciso orizzonte: quello di Israele.
È però altrettanto vero che la Torah, in questo stesso capitolo del Levitico, usa un’espressione analoga per comandare anche l’amore verso chi non fa parte del popolo ebraico: “Tratterete lo straniero, che abita fra voi, come chi è nato fra voi; tu lo amerai come te stesso” (19:34).
Mentre nella nostra società assistiamo a uno scontro sempre più aspro tra un nazionalismo con derive razziste e un universalismo che tende ad annullare le differenze culturali, la Torah, dal canto suo, riconosce sia la necessità di una particolare solidarietà tra i membri dello stesso popolo, sia il principio dell’inclusione e dell’amore per chi arriva da lontano.
EMOR
“Straniero o nativo del paese, chi bestemmia il nome di HaShem sarà messo a morte. Chi toglie la vita a un uomo sarà messo a morte” (Levitico 24:16-17).
Questo accostamento tra le leggi sulla bestemmia e quelle sull’omicidio (e su altri danni fisici arrecati alla persona) è alquanto sorprendente: perché mai la Torah pone queste norme nella stessa sezione, proprio una a fianco all’altra?
Rav Joseph Soloveitchik spiega che esiste uno stretto collegamento tra i peccati di bestemmia e omicidio: denigrando Dio, il bestemmiatore rinnega la Legge e la morale divina, finendo di fatto per denigrare l’essere umano, infangando l’idea che quest’ultimo sia stato creato “a immagine di Dio”.
L’omicida, all’inverso, agisce attaccando l’essere umano, ma finisce in realtà per attaccare Dio, profanando la sacralità della vita dell’immagine terrena del Creatore. Questo sembra essere uno dei motivi per cui la Torah afferma che l’esposizione di un cadavere è una dissacrazione di Dio (Deut. 21:23).
Da questo punto di vista si comprende anche perché la pena per i due peccati sia la stessa, ossia la morte. Il bestemmiatore, come l’omicida, ripudia la vita e annulla il suo senso, distruggendo anche il valore della propria stessa esistenza.
BEHAR – BECHUKKOTAI
“Se seguirete le mie leggi, se osserverete i miei decreti e li metterete in pratica, io vi darò le piogge nella loro stagione, la terra darà i suoi prodotti e gli alberi della campagna daranno frutti” (Levitico 26:3-4).
Qual è la ricompensa che spetta a coloro che vivono secondo il volere divino? Ponete questa domanda a una persona di fede (qualsiasi fede), e quasi certamente il vostro interlocutore vi parlerà di speranze ultraterrene, del paradiso, o almeno di una profonda gioia spirituale.
Del tutto diversa è la risposta della Torah, espressa nella parashah di questa settimana. A chi osserva i comandamenti, il testo biblico non prospetta ricompense dopo la morte o l’elevazione in cielo. Il premio è invece molto concreto: la pioggia, i frutti della terra, la pace nel paese, la vittoria sui nemici e la presenza di Dio in mezzo al popolo attraverso il Santuario.
L’assenza di riferimenti all’oltretomba non basta ad affermare che la Bibbia ebraica neghi del tutto l’esistenza di un destino ultraterreno per l’essere umano. Ciò che invece dobbiamo comprendere è che la prospettiva della Torah non coincide con quella della persona religiosa di oggi. La Torah non ci parla di “cosa c’è dopo” perché la sua attenzione è rivolta a questo mondo, alla costruzione di una società giusta sulla terra. Le benedizioni che troviamo in questo brano, inoltre, non sono rivolte all’individuo, ma alla nazione ebraica nella sua collettività. Il Patto posto al centro della Bibbia ebraica non è fra Dio e il singolo credente, ma fra Dio e un popolo fedele.
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