Questo articolo è dedicato alla memoria della Dr. Avigail Rock z”l, grande esperta di Tanakh e insegnante presso l’Herzog College, recentemente scomparsa. Le riflessioni che seguono sono basate su una sua lezione dal titolo “Biblical allusions to the story of the Akeida“.
Yiftach fece voto ad HaShem e disse: «Se tu mi metti nelle mani gli Ammoniti, colui che uscirà per primo dalla porta di casa mia per venirmi incontro, quando tornerò vittorioso dagli Ammoniti, sarà per HaShem e io l’offrirò in olocausto» (Giudici 11:30-31).
Siamo nell’era buia dei Giudici, un tempo di corruzione morale, smarrimento e oppressione per il popolo d’Israele. Yiftach (Iefte), intrepido giudice chiamato a liberare la nazione dai nemici Ammoniti, assume spontaneamente un impegno avventato e non richiesto dinanzi a Dio.
Come deduciamo dal verso precedente, Yiftach pronunciò questo voto quando aveva già raggiunto il campo nemico. Verosimilmente, la promessa non fu espressa in privato, ma al cospetto dell’esercito, per dare forza ai guerrieri dimostrando loro l’assoluta devozione del comandante.
Benché alcuni commentatori abbiano cercato (in parte comprensibilmente) di interpretare il brano in modo da “depurarlo” dai suoi aspetti più aberranti, dal testo è molto chiaro che Yiftach stia parlando di un sacrificio cruento. Il termine olah (“olocausto”) indica un’offerta sacrificale bruciata interamente sull’altare, come descritto dettagliatamente nel primo capitolo del Levitico.
È altrettanto chiaro, per quanto sconvolgente, che Yiftach si riferisca a un essere umano, e in particolare a una donna, non a un animale. Era infatti consuetudine, come si legge ad esempio in 1 Samuele 18:6, che le donne uscissero per andare incontro ai guerrieri celebrando la vittoria in battaglia con danze e canti. Di certo, Yiftach non aveva in mente che una pecora o una mucca potesse sbucare dalla porta di casa sua per accoglierlo al suo ritorno.
La Torah, è bene ricordare, proibisce i sacrifici umani: “Non si trovi in mezzo a te chi fa passare suo figlio o sua figlia per il fuoco […] perché HaShem detesta chiunque faccia queste cose” (Deut. 18:9-12). Tali pratiche, dichiara il Creatore nel libro di Geremia (19:5), sono “una cosa che non ho mai comandato, di cui non ho parlato, né è mai entrata nella mia mente” (Geremia 19:5).
Yiftach, tuttavia, sembra non saperlo. Questo giudice non è presentato come un saggio che medita sulla Legge divina; egli è invece un uomo dedito alle armi, scacciato dai suoi fratellastri in quanto figlio di una prostituta, che aveva vissuto circondandosi di “uomini senza valore” (Giudici 11:3), con cui usciva a fare incursioni. Gli anziani della sua tribù lo avevano scelto come condottiero per le sue abilità militari, non per altre virtù. In un tempo in cui “non c’era alcun re in Israele, e ognuno faceva ciò che era giusto ai propri occhi”, come il libro dei Giudici ripete più volte, sembra che agli occhi di Yiftach sia parso giusto imitare la via idolatrica dei Cananei, popoli che sacrificavano vite umane alle loro divinità sanguinarie.
La svolta drammatica
Così gli Ammoniti furono umiliati davanti agli Israeliti. E Yiftach tornò a Mitzpah, verso casa sua; ed ecco, gli uscì incontro la figlia, con timpani e danze. Era l’unica figlia: non aveva altri figli, né altre figlie. Appena la vide, si stracciò le vesti e disse: «Ah, figlia mia, tu mi hai rovinato! Anche tu sei con quelli che mi hanno reso infelice! Io ho dato la mia parola ad HaShem e non posso ritirare [il mio voto]» (11:34-35).
Quello di stracciarsi le vesti è un inequivocabile segno di lutto, in questo caso un lutto anticipato che precede una morte inevitabile: ecco un’ulteriore conferma del fatto che si parli proprio di un sacrificio umano e non – come pretendono Ibn Ezra e Ralbag con l’intento di salvare la reputazione di questo valoroso giudice d’Israele –, di una “consacrazione a Dio“, cioè di una sorta di vita monastica nel Santuario.
Il verbo shuv (“ritornare”, “ritirare”), compare continuamente in questo capitolo (vedi ad es. vv. 8; 9; 31; 39): tutti nel racconto “ritornano” o “si ritirano”, eccetto, tragicamente e non a caso, la parola data da Yiftach a Dio, che non può essere ritrattata. A questo proposito Rashi, basandosi sul Midrash, attribuisce a Yiftach e ai Saggi dell’epoca la colpa di non aver tentato di annullare il voto a causa del loro orgoglio.
Dopo aver appreso della sua morte imminente, la fanciulla reagisce con sorprendente rassegnazione: “Padre mio, se hai dato la parola ad HaShem, fai di me secondo quanto è uscito dalla tua bocca” (11:36). A queste parole, la giovane aggiunge un’unica richiesta: “Lasciami libera per due mesi, perché io vada errando per i monti a piangere la mia verginità con le mie compagne” (11:37). La verginità è intesa qui come una potenzialità che rimarrà per sempre inadempiuta, lasciando la stirpe di Yiftach senza una discendenza.
Al termine dei due mesi, come leggiamo al v. 39: “ella tornò dal padre ed egli fece di lei quello che aveva promesso con il voto“. Il testo non si dilunga nel descrivere l’atto orribile, né ci fornisce alcun dettaglio. Persino per il narratore biblico, che altrove non è affatto reticente quando si tratta di narrare uccisioni e aberrazioni, il rito compiuto da Yiftach appare troppo ripugnante per essere raccontato. Ciò che invece il testo riporta, a conclusione del racconto, è la nascita di un’usanza tra le donne d’Israele, che ogni anno commemorano la triste sorte della ragazza per quattro giorni (11:39-40).
Echi del sacrificio di Isacco
Leggendo questa terribile storia, aspettiamo invano che una condanna esplicita emerga dal testo. Scossi dall’ingiustizia compiuta, ci aspetteremmo che la Bibbia affermi, come fa in riferimento ad altri personaggi, che “Yiftach fece ciò che è male agli occhi del Signore”. E invece no: la voce divina, in questo come in altri casi, sembra tacere del tutto dinanzi al degrado etico e spirituale che dilaga nell’epoca dei Giudici, lasciando al lettore il compito di trarre le sue conclusioni.
Per cogliere il punto di vista morale del narratore, possiamo tuttavia servirci del confronto-contrasto con un’altra storia biblica in cui compare il tema del sacrificio umano: la storia dell’Akedat Yitzchak, il (mancato) sacrificio di Isacco. Spesso, infatti, è attraverso l’accostamento tra brani differenti che la Bibbia ebraica rivela ai suoi studiosi più attenti il proprio messaggio.
Yitzchak e la figlia di Yiftach sono designati entrambi come un’olah, un olocausto da offrire a Dio (Genesi 22:2; Giudici 11:31). Questi due giovani, vissuti in tempi e in circostanze tanto diversi, sono i soli in tutta la Bibbia ebraica a essere definiti con il termine yachìd, cioè “unico” (Genesi 22:2; Giudici 11:34), a sottolineare il legame esclusivo con i rispettivi genitori.
Tra Yitzchak e il padre Avraham, proprio come tra la figlia di Yiftach e suo padre, il testo riporta un solo dialogo. In entrambi i casi, il discorso del figlio si apre con la parola avì (“padre mio”), e quello del padre con benì / bitì (figlio mio / figlia mia). Nella Genesi, però, Avraham dichiara prontamente hinnèni (“eccomi”), dimostrando al figlio grande vicinanza affettiva (nonostante la volontà del Creatore gli chieda di sacrificarlo), mentre nel libro dei Giudici emerge una sensibilità del tutto diversa da parte di Yiftach, che si rivolge alla figlia con un’esclamazione di dolore (11:35), attribuendole la colpa della sua rovina.
C’è poi l’immagine dei monti (HeHarìm) che accomuna e al contempo pone in contrasto le due vicende: Avraham e Yitzchak procedono uniti verso il monte prescelto da Dio, lasciando indietro i due giovani servi ad aspettarli (Genesi 22:5-8); la figlia di Yiftach, invece, si reca sui monti con le sue giovani compagne, mentre in questo caso è il padre a essere lasciato indietro ad attendere il suo ritorno (Giudici 11:37).
Al termine del racconto dell’Akedah, Dio promette ad Avraham: “Io ti benedirò grandemente e moltiplicherò la tua discendenza” (Genesi 22:17). E subito dopo, il testo ci mostra già l’inizio dell’adempimento della promessa parlando della nascita della futura moglie di Yitzchak (22:20-23). All’opposto, la vicenda della figlia di Yiftach si conclude con la triste immagine di una vergine, per sempre anonima, morta senza aver mai “conosciuto uomo” (Giudici 11:39).
Il sacrificio di Yitzchak rappresenta la rinuncia, da parte di Avraham, a ciò che Dio gli aveva donato, una privazione totale delle grandi benedizioni e delle promesse ricevute. L’esatto contrario del voto sconsiderato di Yiftach, un voto che egli pronuncia chiedendo la vittoria in cambio, finendo poi per privarsi della sua unica figlia.
Quella di Yiftach è un’Akedah all’inverso, un’Akedah degenerata e malvagia che non tiene conto dell’importanza fondamentale della conclusione del racconto della Genesi, la conclusione che conferisce il senso a tutto il resto: “Non stendere la tua mano contro il ragazzo e non gli fare alcun male” (22:12).
La spiegazione si può trovare solo nella rozzezza dei costumi e soprattutto nella degradazione delle tradizioni mosaiche, nel torbido periodo dei Giudici in cui “ognuno faceva quello che gli pareva meglio”” sull’esempio delle pratiche pagane dei popoli vicini. E del resto, non per nulla Jefte era figlio di una prostituta. I fratelli lo scacciarono per non dividere l’eredità con lui e lui vagò per il mondo con dei buoni a nulla e sfaccendanti e divenne un bandito. Del resto nel periodo dei Giudici ognuno faceva quello che gli pareva meglio, (un pò come oggi) infatti molti si proclamavano giudici tra cui anche lo stesso Iefte
E’ simile al sacrificio di Ifigenia,solo che in quel caso la fanciulla è sacrificata per propiziare l’evento, cioè la partenza della flotta. E’ una cosa che ai nostri occhi può destare solo orrore, tanto che il commento e la chiusa del racconto di Tito Lucrezio Caro sono queste precise parole:” Tantum potuit religio suadere malorum”.
Gli anziani di Galaad credettero di essere stati loro a scegliere Iete per guidarli in battaglia, e pure Iefte si convinse che fossero stati quelli a volerlo come condottiero per le sue abilità militari, ma tali erano soltanto i loro pensieri, non la realtà. La realtà era che tutto avveniva secondo i disegni di Dio. Che Iefte fosse stato scelto da Dio è confermato in un altro libro del Tanakh (1Samuele 12:11), ma soprattutto è il redattore stesso del libro di Giudici che lo afferma: dice che in quel tempo ognuno faceva ciò che era giusto ai propri occhi ma tiene a precisare che nel frattempo, durante quella specie di medioevo, Dio non era assente. Al contrario, la sua presenza era costante nel castigare gli israeliti per la loro apostasia; perciò permetteva ad altri popoli di opprimerli, finché, in seguito al loro pentimento, faceva sorgere un giudice. Questa figura era una sorta di pre-messia, che li liberava militarmente dai nemici e poi li guidava nella retta osservanza della Torah (per questo si chiamavano Giudici e non generali).
Il redattore pone molto l’accento sulla forza di Dio nelle azioni umane, per esempio nel caso di un precedente Giudice, Gedeone, eletto capo dell’esercito senza che avesse mai combattuto, e in più obbligato perfino a licenziare il suo esercito di 32.000 israeliti tranne 300 uomini, per affrontare 135.000 nemici. Dio voleva non ci fossero dubbi che ogni vittoria militare dipendeva unicamente dalla sua volontà perché l’oppressione e la liberazione del suo popolo era soltanto lui a determinarle col fine di redimerlo affinché obbedisse alle sue leggi per essere quella nazione santa e di sacerdoti com’era nel suo proposito.
Se Iefte fosse stato permeato dai culti pagani come quelli dei sacrifici umani e ignorante della Torah, come avrebbe potuto essere la guida anche spirituale e giuridica (finché visse) del popolo redento tornato infine all’osservanza della Torah? Come dire che un rettore universitario assume come docente di geografia un incompetente che proclama essere la Russia un paesino della Toscana, e Domodossola la capitale della Cina.
L’autore biblico esalta anzi la mirabile conoscenza di Iefte della Torah soffermandosi sulla diatriba epistolare col re ammonita.
Oltre a ciò, lo spirito di Dio era su di lui; tale espressione è presente ogni volta che un Giudice compiva un’azione guidata da Dio, come nel caso di Sansone che abbatté un esercito di filistei con una mascella d’asino; ma Sansone, appena violò la Torah, ossia il suo voto di nazireo di non tagliarsi mai i capelli, perse all’istante il favore divino. Iefte, pertanto, come poteva agire in nome e per conto di Dio proprio mentre violava le leggi di Dio con culti pagani? Per di più in una circostanza che rappresentava appunto il ritorno del popolo dal paganesimo alla Torah?
Si desume pertanto che il voto che lui fece fu del tutto legale promettendo in olocausto a Dio uno dei suoi schiavi o una delle sue concubine. La Torah proibisce il sacrificio della prole, solo della prole, così come vieta di mangiare carne di maiale, ma il divieto parziale non equivale a quello totale. Iefte, nel suo immaginario, era convinto di combattere una guerra provocata da eventi casuali e che, se l’avesse vinta, poteva rivalersi sulla sua gente che in passato l’aveva disprezzato, privato della sua eredità ed esiliato. Accecato dal suo rancore e dal desiderio di rivalsa, convinto di poter vincere con il suo valore e magari con l’aiuto di Dio quella guerra che credeva essere solo un fatto personale, offese Dio. Per questo fu castigato: la prima persona che Dio gli mandò incontro, infatti, fu la sua unigenita figlia: In questo modo veniva troncata la sua stirpe.
Lungi dall’essere un esempio di giustizia, Yiftach è presentato come un reietto bandito che frequentava “uomini insensati”: non esattamente il curriculum di uno tzaddik (giusto).
Possiamo dire che Yiftach era “l’uomo giusto al momento giusto”, di cui Dio si servì per redimere Israele grazie al suo coraggio, alla sua sfrontatezza e al suo valore militare, ma egli era al contempo propenso al sincretismo religioso come si nota anche dalla sua frase rivolta al re Ammonita “Non hai forse tu ciò che il tuo dio Kemosh ti ha fatto possedere?”.
Che lo spirito di HaShem scese su Yiftach non dimostra che egli fosse un giusto o un uomo perfetto: altrove è scritto che lo spirito di Dio guida anche i popoli stranieri per fare guerra a Israele, e Isaia parla del re Ciro di Persia (pagano) addirittura come del messia scelto da Dio.
Yiftach non è certo un’eccezione: a cominciare da Ghideon, il libro dei Giudici ci presenta i suoi eroici protagonisti in modo sempre più ambiguo e problematico, evidenziando così il progressivo declino morale di Israele in questa epoca.
La Bibbia vieta esplicitamente solo i sacrifici umani della prole poiché questa era la norma presso i Cananei, e come recita il principio più volte invocato da Maimonide: “la Torah si esprime secondo la maggioranza” (esempio: la Torah afferma di “non lasciar vivere la strega”, poiché erano tipicamente le donne a occuparsi della stregoneria, ma ciò non vuol dire che uno stregone maschio non vada ugualmente condannato). La prescrizione dei sacrifici umani nella Torah non esiste, è semplicemente un’idea immaginata dai detrattori del testo biblico, la cui lettura è talvolta fuorviante esattamente quanto le letture religiose e dogmatiche.
Anche ammesso che Iefte non fosse una perla, di sicuro i suoi connazionali non erano migliori di lui poiché preferivano i Baal e i costumi perversi dei pagani a Dio e alla Torah. Allora Dio li “curava” mettendoli in terapia intensiva sotto forma di oppressione straniera. Quando detta terapia dava i suoi frutti perché il popolo eletto si rendeva conto della propria apostasia, la cura cessava: gli oppressori erano cacciati militarmente, in Israele erano banditi i Baal e i culti annessi ed era ripristinata la legalità, vale a dire la Torah, sotto il governo attento di un Giudice che, ovviamente, doveva essere edotto e osservante delle leggi di Dio. E Iefte, comunque si voglia vederlo, era in ciò qualificato, e lo scrittore biblico ha cura di evidenziarlo (Giudici 11:12-28). La sua frase rivolta al re Ammonita “Non hai forse tu ciò che il tuo dio Kemosh ti ha fatto possedere?” suona più come espressione di fine diplomazia poiché si stava rivolgendo a un nemico che credeva nei propri dèi e lui sperava con le sole parole di convincerlo a evacuare i territori d’Israele occupati senza il ricorso alle armi.
Dio non scelse Iefte per le sue doti militari; questo lo faceva Napoleone, che metteva alla testa dei suoi reggimenti gli ufficiali più capaci; ma il Dio degli eserciti non aveva bisogno delle abilità tecniche degli uomini per vincere le sue battaglie, e ci teneva a farlo sapere come nel caso dei trecento di Gedeone che sconfissero l’orda dei madianiti. La sola qualità che esigeva dai suoi unti era la fedeltà a lui e alle sue leggi, sebbene non mancassero le cadute anche tra i giusti, come accadde a Davide che, nella sua figura di assassino e adultero, non fu certo migliore di Iefte. Se quest’ultimo fosse stato davvero un individuo grezzo e ignorante abituato a mercanteggiare con i Baal, non avrebbe mantenuto fede alla sua promessa (immolare sua figlia unigenita) avendo ormai ottenuto la vittoria che voleva. Si pensi come paragone a Salomone: questi, dopo gli immensi benefici che aveva ricevuto, compensò Dio tradendolo. Sia Davide sia Iefte si rivelarono almeno uomini leali e rispettosi verso Dio, pur con le loro debolezze.
Non va confuso l’obnubilamento che Dio provocava nella mente dei monarchi pagani con lo spirito che infondeva nei suoi Giudici. Al faraone rese ostinato il cuore fino alla follia così far subire all’Egitto i dieci flagelli. All’opposto, ai re persiani Ciro, Serse e Dario ammorbidì il cuore perché rimpatriassero i giudei in esilio e li assistessero nella ricostruzione del loro paese. Riguardo ai giudici, invece, lo spirito divino scendeva su di loro (ma a condizione che seguissero le sue vie e non quelle dei pagani), per conferire ad essi una potentissima marcia in più: così i condottieri vincevano le battaglie senza essere strateghi e con poche truppe, e i forzuti come Sansone disponevano di un’energia sovrumana.
A Iefte fu data l’invincibilità in guerra, e ciò avvenne proprio nell’istante in cui lui stava formulando quel voto d’olocausto di una vittima umana che, evidentemente, era in piena sintonia con le norme della Torah. Se, diversamente, in quel momento Iefte avesse realmente trattato Dio alla stregua di un qualunque Baal, venerandolo secondo i culti perversi degli idolatri, Dio sarebbe stato incoerente a concedere la vittoria agli israeliti. D’altra parte, la fine della storia dice che Iefte fu giudice d’Israele finché morì e che in seguito vennero altri giudici e tutto fu normale, finché, qualche decennio dopo: ” Gli Israeliti tornarono a fare quello che è male agli occhi del Signore e il Signore li mise nelle mani dei Filistei per quarant’anni.” (Giudici 13:1, CEI).
La cura precedente, vale a dire l’oppressione ammonita, aveva funzionato perché gli israeliti sotto la guida di Iefte erano tornati a Dio e alle sue leggi, e ciò durò diversi anni; poi ricomparve la vecchia malattia dell’apostasia e quindi ricominciò la cura, questa volta con l’oppressione dei filistei.
Non è Dio che ha scelto Yiftach per il valore militare, bensì gli anziani di Gilad. HaShem può scegliere chi vuole per redimere, anche un giovane che non sa indossare l’armatura o i Persiani zoroastriani. Di certo non aveva scelto Yiftach per la sua giustizia, dato che, ribadisco, il testo lo presenta come un compagno di uomini insensati. Del resto il suo successore Shimshon, oltre allo Spirito di Dio che lo conduce alla vittoria, ha persino un racconto di “annunciazione” che anticipa la sua nascita miracolosa. Eppure egli fu un uomo ambiguo, volubile, pronto a imparentarsi con gli idolatri pur di soddisfare la sua passione per le donne. Dal testo si evince che Dio usò proprio queste sue debolezze morali a proprio vantaggio, per liberare Israele dai Filistei. Segue poi un racconto ancora più problematico in cui leggiamo di un levita che diventa sacerdote di un idolo, e di un popolo empio che tuttavia appare vittorioso. Insomma, il libro dei Giudici ci mostra un declino progressivo diventando via via sempre più deprimente.
Tornando a Yiftach, tu stesso affermi che egli commise un peccato con il suo voto non necessario, e che la Torah vieta di sacrificare la prole, per cui alla fine Yiftach si macchiò comunque di un atto proibito anche dal tuo punto di vista.
Poni l’accento sulla circostanza che Iefte fosse compagno di uomini insensati, scelto solo per le sue doti guerriere e non per la sua giustizia, ma dimentichi che la sua attività di generale durò solo qualche settimana, e che inoltre le sue abilità militari non erano necessarie perché il vero condottiero degli israeliti era il Dio degli eserciti, mentre il suo lavoro di Giudice durò per anni fino alla sua morte. Che fa un giudice? Applica le leggi, in questo caso la Torah, e per applicarle correttamente deve conoscerle a fondo e possedere nello stesso tempo equilibrio, saggezza, senso di giustizia. Ti pare che un individuo che sceglie la compagnia di insensati e che non sa distinguere fra Dio e la sua antitesi, cioè Baal, potrebbe sul serio svolgere un simile lavoro per reggere una nazione destinata a essere santa e di sacerdoti?
Dio scelse Iefte, sebbene fosse amico di insensati, soprattutto per essere Giudice in tempo di pace, e pace e rettitudine ci furono effettivamente in Israele finché lui visse e anche dopo per parecchi altri decenni a dimostrazione che seppe svolgere egregiamente quel lavoro. Dio scelse bene, così come fece bene a scegliere Davide per essere re, soprassedendo sul particolare che costui fu adultero e assassino.
Quando fece quella promessa fatale, Iefte aveva escluso di dover immolare sua figlia, sapendo appunto che era vietato sacrificare la prole con un voto spontaneo. Ma sapeva anche che Dio può togliere agli uomini la loro prole per castigarli; ciò è dichiarato moltissime volte nelle maledizioni scritte nella Torah. Iefte dovette uccidere personalmente sua figlia con un atto che non aveva più la valenza di un sacrificio per una grazia ricevuta, ma che era palesemente una punizione per la sua superbia.
Doveva essere chiaro a lui e a tutto Israele che la vittoria sugli ammoniti non era dovuta al valore degli uomini (sia pure con l’aiuto di Dio ripagato però da un sacrificio). Non dovevano esserci dubbi che quella guerra era stata vinta interamente da Dio, e che quell’olocausto compiuto da Iefte non costituiva un sacrificio votivo ma era solo un castigo.
L’idea che i giudici fossero, come il termine italiano appunto suggerisce, delle autorità giuridiche non è conforme alla descrizione di molti dei giudici descritti nella Bibbia. I giudici sono presentati soprattutto come dei capi militari la cui carica era non ereditaria. Difficile immaginare un tribunale presieduto da quella testa calda di Sansone o dallo stesso Iefte. Per il resto ho già espresso dettagliatamente la mia opinione sul racconto.
Non sono d’accordo che Jefte abbia sacrificato la propria figlia facendola passare il per il fuoco come facevano i pagani con il dio Molok e come ha fatto qualche re disraele ma che la figlia fosse diventata una OBLATA al servizio del Tempio come si legge in Esdra e che la traduzione dei 70 e’ manipolata perche il testo Masoretico dice diversamente riguardo al fatto di andare sui monti a “piangere” e che la vicenda della figlia di Jefte era l’inizio di una festa che si faceva per le ragazze che si consacravano al Signore servendolo nel Tempio. Da considerare che tanti altri giudici avevano 30 figli e figle e nipoti, perche’ solo Jefte aveva una figlia unica? Consideriamo altresi’ che le vicende dei 12 Giudici sono state narrate dai redattori deutoronomici per coprire un arco di 480 anni cioe’ dalluscita dall’Egitto fino all’831 quando e’ stato costruito il Tempio di Gerusalemme come riporta il luibro delle Cronache. Secondo me due sono le ipotesi: o il libro dei giudici e’ una invenzione popolare e comunque Jefte non fece un sacrificio cruento bensi si privo’ della figlia che divenne una oblata al servizio nel Tempio.
Il testo ebraico ahimè non lascia spazio a dubbi: la figlia di Yiftach è stata sacrificata. Si noti anche il parallelismo con la vicenda del giuramento di Shaul di cui abbiamo parlato nell’articolo “Il primo peccato di Saul”.
Solo una puntualizzazione.
È vero che il passo menzionato in Deuteronomio 18 sembra proibire i sacrifici umani. Ma non si deve dimenticare che il Deuteronomio è uno scritto relativamente tardo. Secondo la Bibbia è stato scritto dal re Giosia nel VII secolo a.C. contrabbandandolo come il fortunoso ritrovamento di un rotolo perduto della Torà. Ma è altresì molto probabile che sia stato composto da Esdra, il primo legislatore dopo il ritorno in Israele in seguito all’editto di Ciro.
Se leggete attentamente un passo contenuto nell’ultimo capitolo del Levitico (27:19) scoprirete che gli Ebrei facevano regolarmente sacrifici umani secondo l’esplicito comandamento di Yahweh!
Nulla di strano, quindi, nella vicenda di Yefte.
Del resto anche Abramo avrebbe effettuato il sacrificio di suo figlio se l’angelo di Yahweh non avesse fermato la sua mano assassina. Ma nel racconto Eloista (dove il Dio Creatore è appunto Elohim e non Yahweh) Isacco sparisce dalla storia, segno che il sacrificio ha avuto luogo!
“Secondo la Bibbia è stato scritto dal re Giosia nel VII secolo a.C.”
Non direi “secondo la Bibbia”, ma secondo una teoria (opinabile) che ritiene inattendibile il racconto del ritrovamento del rotolo nel Tempio.
Come ho scritto in passato, ritengo altamente improbabile che il Deuteronomio risalga a un’epoca recente come quella di Esdra, dal momento che la sua struttura letteraria si basa su documenti molto più antichi, che non erano più noti in epoca persiana ed ellenistica (per non parlare del fatto che non menziona mai Gerusalemme).
Levitico 27:19 parla della consacrazione di un pezzo di terra, quindi nessun riferimento ai sacrifici umani.
“Levitico 27:19 parla della consacrazione di un pezzo di terra, quindi nessun riferimento ai sacrifici umani”.
Chiedo venia, si è trattato di un lapsus calami. Intendevo LEVITICO 27:29 che nella versione della CEI (una delle migliori) traduce: «Nessuna persona votata allo sterminio potrà essere riscattata; dovrà essere messa a morte» (più chiaro di così!).
Riguardo al Deuteronomio, in II Re 22:4 segg. si afferma che «Il sommo sacerdote Chelkia disse allo scriba Safan: “ho ritrovato nel tempio il libro della legge”», Dal momento che nel capitolo seguente si parla di tutta una serie di riforme attuate da Giosia, è altamente probabile che tra queste vi sia stata la redazione ex-novo il corpus legum che va appunto sotto il nome di Deuteronomio (ossia “seconda legge”). Operazione necessaria per porre un po’ di ordine al guazzabuglio di leggi, norme, regole e quant’altro contenuta nei precedenti libri della Torà. Infatti, la lettura del Deuteronomio è molto più agevole e lineare dei libri precedenti. Sempre che, come ho accennato, non si tratti di una finzione letteraria simile a quella operata dal Manzoni quando avrebbe riscritto I Promessi Sposi basandosi su un presunto manoscritto preesistente.
Dopodiché Esdra ne avrà ulteriormente aggiornato e semplificato il contenuto. Tant’è che in Neemia 8:3 segg si dice che lesse il contenuto della Legge al popolo che evidentemente non ne era a conoscenza.
Quello che la CEI traduce con “voto di sterminio” non è un sacrificio umano. Non rientra proprio nell’ambito dei sacrifici, anzi in almeno un caso è posto in contrasto ai riti sacrificali. Forse dedicherò un nuovo articolo a questo verso, perché necessita di essere chiarito.
Che il Deuteronomio sia stato scritto da Giosia o da Esdra è appunto una supposizione di alcuni studiosi, così come tutti i discorsi sulla tradizione elohista, sacerdotale ecc.
Personalmente ritengo tali supposizioni non più accettabili alla luce delle conoscenze che abbiamo oggi. Ad esempio, studiosi come Joshua Berman hanno mostrato che il Deuteronomio segue il modello letterario-giuridico della tradizione ittita. Ma l’impero ittita era tramontato da secoli al tempo di Esdra, dunque un autore che scriveva in questo nuovo contesto storico avrebbe scelto altri modelli.
Tuttavia c’è qualcosa che proprio non mi è chiaro.
Quando, ad esempio (uno dei tanti che si trovano nella Bibbia) nel capitolo 10 di Giosuè si legge che “votò allo sterminio Tizio, Caio, Sempronio” …. e che a Makedda – sempre dopo il voto allo sterminio – “non vi lasciò alcun superstite” cosa significa allora?
Leggendo la Bibbia con spirito critico non posso che giungere a un’unica conclusione: e cioè che gli Ebrei facevano sacrifici umani esattamente come le popolazioni vicine (Moabiti, Ammoniti, Cananei, ecc). Forse gli unici sani erano gli Egizi che già da tempo avevano abolito la schiavitù ed erano decisamente più umani!
Votare alla distruzione una città nemica non ha nulla a che fare con i sacrifici umani. La prima è un’azione drastica di guerra, il secondo è un rito religioso da compiere nel santuario. Anche i termini in ebraico sono diversi. Quindi no, né il Levitico né Giosuè prescrivono sacrifici umani.
Visto che hai menzionato l’Egitto, anche nei testi egizi ci sono frasi analoghe a quella di Giosuè da te citata. Nel poema di Pentaur è scritto che Ramaes II ha sterminato un esercito composto addirittura da “tutte le nazioni” senza lasciare superstiti. In ogni caso, questo tipo di espressione non va preso alla lettera e non rispecchia la realtà storica effettiva.
Sarà come dici. Ma purtroppo ho timore che si tenda talvolta a giocare su sofismi letterari. Quando si prende in considerazione ciò che è scritto nel citato passo del Levitico, ossia quando nel nome di Dio si vota una persona allo sterminio, è come se di fatto la si offrisse in olocausto alla divinità, non potendo in alcun modo essere riscattata (non redimetur, sed morte morietur, traduce la Vulgata, forse la migliore versione latina della Bibbia). E quando lo sciagurato Jefte fa voto di offrire in sacrificio la sua unica figlia, sempre la Vulgata traduce “fecit sicut voverat”. A me il significato pare chiaro.
Che poi nel Deuteronomio Jahweh ed Elohim si siano – per così dire – “ammorbiditi” nelle loro posizioni primeve è altra cosa (Jefte del resto non poteva saperlo, dal momento che il periodo dei Giudici si colloca tradizionalmente 500-600 anni prima della stesura del Deuteronomio).
Anche l’ordine di Dio ad Abramo di sacrificargli suo figlio è cosa che fa riflettere (anche se poi nel racconto jahwista la storia volge a lieto fine….). E questo sembra coerente col fatto che il codice J, nel quale si respira un afflato decisamente più primitivo, è stato redatto nel regno meridionale di Giuda attorno al X secolo a.C.
Non vedo alcun “ammorbidimento” in questo senso dal Levitico al Deuteronomio: i sacrifici umani sono sempre proibiti (il sacrificio del proprio figlio è già condannato in Levitico 18, non è un’invenzione del Deuteronomio).
Pur con il massimo rispetto per la tua formazione culturale, che intuisco essere solida, mi permetto di invitarti a leggere ciascun libro della Bibbia come un’opera unitaria, secondo un approccio sincronico, e non alla luce di supposizioni filologiche nate nell’Ottocento. In questo modo si comprendono molte cose interessanti. Il racconto del sacrificio di Isacco, ad esempio, non è il frutto del connubio di due tradizioni, ma una narrazione unica e coerente. Fin dall’inizio il testo (in ebraico) ci fa capire che Dio non intendeva davvero far morire Isacco: “VeHaElohim nissà et Avraham”. Il verbo “nissà” indica una prova, un test, non una vera richiesta di un sacrificio.
Se vuoi approfondire questo approccio al testo e hai domande a riguardo siamo a disposizione.
Purtroppo sono in campagna e non ho con me il testo ebraico della Bibbia; quando rientrerò in Brianza vedrò di approfondire la questione (per quanto mi sarà possibile, perché l’ebraico antico l’ho abbandonato da parecchi anni).
Scrivi “[…] mi permetto di invitarti a leggere ciascun libro della Bibbia come un’opera unitaria, secondo un approccio sincronico […].
Ma è proprio questo il punto forse cruciale della questione.
Già nel ‘700 Voltaire aveva capito che la Torà (intendendo con questo termine i cinque libri del Pentateuco) non è una composizione unitaria. E del resto uno dei maggiori storici e critici dell’800, Julius Wellhausen, nella sua opera Esateuco aveva praticamente posto fine alla diatriba sorta nei vari ambienti accademici.
Mi scuserai se dico banalità di cui sei certamente al corrente: lo faccio soltanto per non incorrere in equivoci.
Nella Torà sono confluiti quattro codici redatti in epoche distanti secoli. Questi codici sono indicati con J (jahwista), E (eloista), D (deuteronomista) e P (sacerdotale, dal tedesco Priestercodex).
J ed E sono stati composti attorno al X secolo nei due regni rispettivamente di Giuda e di Israele — in seguito allo scisma — e successivamente unificati nel 722 dopo l’invasione del regno settentrionale da parte dell’Assira.
D è stato composto, come abbiamo già visto, da Giosia dopo il 622 in seguito a un corpus di riforme che aveva attuato per ricondurre alla ragione un popolo da tempo sbandato.
Infine P risale al tempo della cattività babilonese, durata una 50-ina d’anni (dal 586 al 538, anno dell’Editto di Ciro). Questo lo si può facilmente evincere anche senza essere degli esperti: l’inizio del Genesi (Bereshit) dove è esposto il primo racconto della creazione, è modellato sull’Enuma Elish, un testo babilonese che ha fortemente influenzato il racconto biblico (si vedano, ad esempio, le numerose analogie col Diluvio). Nel secondo racconto della creazione (codice J) si respira un afflato decisamente più antico (ad esempio, si parla di un Dio che passeggia tranquillamente in giardino nella frescura della sera, come farebbe un umano).
Quello che ho portato è soltanto un esempio, ma è forse sufficiente per capire quanto sia veramente difficile vedere nella Torà un’opera unitaria!
Per quando riguarda il mancato sacrificio di Isacco tu dici che si è trattato di “una prova, un test, non una vera richiesta di un sacrificio”.
Ma questo solleva due questioni sconcertanti. La prima è quella di immaginare il trauma che accompagnerà il povero Isacco per tutta vita quando, ignaro di tutto, ha dovuto stendersi indifeso sulla pila di legna e con occhi smarriti vedere il padre alzare il fendente sopra di lui.
La seconda ci costringe ad ammettere la totale insicurezza di un Dio che ha bisogno di una prova del genere per vedere se Abramo gli è veramente fedele.
Sin da ragazzino ho sempre provato una gran ripugnanza a leggere questo racconto!
Del resto pare che il sacrificio del/della proprio/a figlio/a abbia molto impressionato alcuni letterati, tant’è che avuto un seguito anche nella letteratura “profana”, come per esempio l’Ifigenia in Aulide (tra parentesi, proprio domattina su Rai 5 daranno l’opera di C. W. Gluck basata sulla celebre tragedia di Euripide; non so se, come me, ami la lirica).
Quando Wellhausen ha elaborato la sua ipotesi documentale, le conoscenze legate al Vicino Oriente antico erano pressoché nulle. Oggi possiamo comprendere che quelle che per Wellhausen e altri critici erano contraddizioni o incongruenze testuali si ritrovano in maniera simile nella letteratura precedente e contemporanea alla Torah. Il modello di Wellhausen è perciò ormai superato.
Come giustamente dici, c’è un grande divario tra il primo capitolo di Bereshit e il secondo, questo non si può negare. Tuttavia, benché ciascuno dei suoi racconti si serva di modelli culturali diversi e di un proprio immaginario specifico, il testo della Genesi che abbiamo è un’opera unitaria costruita su un impianto coerente in cui le differenze tra i singoli racconti sono una scelta deliberata dell’autore. C’è uno studioso laico, Robert Alter, famoso traduttore biblico, che ha scritto un importante saggio in merito: “L’arte della narrativa biblica”, tradotto anche in italiano.
Parlando del sacrificio di Isacco, non intendevo addentrarmi qui nelle questioni etiche e filosofiche che il racconto solleva. Ci tenevo solo a sottolineare che, anche in questo caso, il testo che abbiamo risulta unitario, e non c’è contraddizione tra il suo sconcertate inizio e la più rassicurante conclusione. Volendo però commentare la tua affermazione sull’insicurezza di Dio, direi che è così che funzionano le narrazioni: non si potrebbe imparare realmente qualcosa se il testo dicesse che Abramo era profondamente devoto, e che Dio sapeva già che egli avrebbe fatto di tutto per Lui. Una narrazione, ancor più nella mentalità semitica (molto pratica e concreta), deve mettere in moto i personaggi e mostrarci delle azioni, dei fatti. E tra l’altro, da una prospettiva filosofica, se ammettiamo l’esistenza del libero arbitrio, non si può neppure sapere in anticipo cosa qualcuno farebbe finché costui non si trova davvero nelle condizioni di agire.
Da quanto scrivi mi pare dunque di capire che ritieni il racconto della creazione come unitario, nonché opera di un singolo autore. E chi sarebbe? Non certo Mosè morto da secoli!
Ti chiedo, tuttavia, di valutare quanto segue.
Se il primo racconto (codice P) fosse realmente stato redatto durante l’esilio babilonese, questo sarebbe perfettamente coerente con quanto vi si legge (lasciamo da parte le analogie con l’Enuma Elish). La piana dell’Eufrate e del Tigri era soggetta a devastanti e ripetute inondazioni (a quel tempo non esistevano argini, e lo stesso Tigri ha questo nome — da tigre — proprio a causa della sua selvaggia e pericolosa turbolenza). La terra asciutta e coltivabile era quindi un bene prezioso da sottrarre all’invadenza delle acque. Ed ecco perché l’agiografo immagina una terra originariamente ricoperta dagli oceani dai quali Elohim fa sorgere le terre emerse e permettere così lo sviluppo della vegetazione, degli animali e quindi dell’uomo.
Al contrario, se il codice J è stato redatto durante il regno meridionale di Giuda, in un luogo arido e desertico, era invece l’acqua un bene prezioso che avrebbe permesso la sopravvivenza di tutti gli esseri viventi. Ed ecco allora che s’immagina un globo totalmente asciutto dal cui sottosuolo Jahwé fa sgorgare l’acqua permettendo così la proliferazione delle specie vegetali e animali.
Per inciso: questo secondo racconto della creazione, sebbene più antico, rispecchia maggiormente la concezione scientifica moderna. Infatti gli oceani si sono formati in un secondo tempo — prevalentemente in seguito a un forte bombardamento cometario — su una terra che, appena formatasi per aggregazione dalla nebulosa primordiale (la stessa che ha generato gli altri pianeti), era totalmente arida.
Dal punto di vista evolutivo dei viventi è invece il primo racconto a essere maggiormente conforme alla scienza. In esso infatti l’uomo appare per ultimo, e anche i due sessi vengono creati simultaneamente (“maschio e femmina li creo”).
Non sto adesso a elencarti le numerose differenze esistenti tra J e P, in quanto ne sei certamente al corrente. Quello che posso dire è che per riuscire a conciliare e armonizzare i due racconti occorre veramente arrampicarsi sugli specchi!
Quale fautore del rasoio di Occam non posso fare a meno di ritenere che in realtà ci si trovi di fronte a due racconti compilati in luoghi, epoche e autori diversi. Col tempo questi primevi miti cosmogonici erano divenuti talmente noti che non si potevano escludere a vicenda, e l’ignoto redattore biblico (chiunque fosse) ha deciso di mescolarli tra loro creando un “pastiche” letterario che in seguito storici, critici e studiosi avrebbero avuto l’arduo compito di sbrogliare.
Lasciando da parte la questione del confronto con le conoscenze scientifiche odierne (nessuno dei due racconti è compatibile), fai bene a dire che i due racconti non possono essere facilmente armonizzati. È proprio questo il punto: non li si deve armonizzare, sono due storie diverse con due prospettive per molti versi opposte. Eppure fanno parte della stessa opera e sono state composte dalla stessa mano autoriale, che le ha inserite entrambe all’interno di un impianto coerente, seppure, come ho detto, rielaborando fonti precedenti che originariamente avevano ben poco in comune fra loro.
Nel primo racconto, che tu chiami P sulla scorta di Wellhausen, ma che io nel mio libro ho umilmente ribattezzato “prospettiva di Elohim”, la cosmogonia descritta non deriva dall’idrografia di Babilonia vista dall’ottica di un Giudeo in cattività, ma dall’idea del mare primordiale come mondo del caos tenebroso, concetto ben presente nel poema Enuma Elish e in alcuni miti cananei. L’acqua è il disordine, è il Tohu vaVohu, ma Dio è il giudice universale che separa gli elementi, conferisce nomi ed esprime approvazione quando l’opera è conclusa. Ciò è in contrasto a Enuma Elish, dove l’ordine deriva da una battaglia cruenta fra gli dèi, mentre qui c’è un’unica volontà sovrana che prevale sul caos senza sforzi.
Poi c’è il secondo racconto, dove però non c’è una vera cosmogonia: la storia inizia quando il mondo è già stato creato e manca praticamente solo l’uomo sulla scena. Il testo parla di un mondo in cui non piove mai, e ciò non crea alcun problema poiché una fonte sotterranea irriga il suolo. Il giardino di Eden, con i suoi fiumi leggendari e la sua fertilità, è ispirato all’Egitto, a cui più avanti nella Genesi è esplicitamente paragonato. Anche la cacciata dal giardino richiama l’espulsione degli Israeliti da parte del Faraone. Ci sono infatti degli interessanti parallelismi lessicali che collegano questa storia a quella della disavventura di Abramo in Egitto, che a sua volta è l’archetipo dell’Esodo (ne abbiamo parlato in una lezione audio dal titolo “alla ricerca dell’Eden” che puoi trovare qui sul sito). Se ora facciamo un passo indietro e osserviamo la struttura dei primi capitoli della Genesi, notiamo che questi racconti non fanno affatto parte di un confuso insieme da sbrogliare a colpi di critica testuale, ma di una costruzione architettonica armoniosa. Ciò può essere dimostrato, ma richiederebbe un discorso ben più lungo.
Interessante, dovresti darmi il titolo del tuo libro. Sono molti gli interrogativi che sorgono leggendo il testo biblico, come ad esempio il citato, il “Tohu v-bohu” (informe e vuota). Mi sono sempre chiesto se “Tohu” ha qualche attinenza col “Tiamat” dell’Enuma Elish (rappresentazione del caos primordiale) e col serpente tentatore (altra forma del caos che tenta di distruggere il cosmos). Tiamat, se non ricordo male, è rappresentato da un drago. Ma un drago non è altro che un enorme serpente raffigurato con le zampe o le ali (per indicare la velocità con cui si muove) e il fuoco che sputa dalle fauci (il suo veleno!).
Comunque, se è vero che il 2° racconto inizia quando il mondo è già stato creato, lo stesso vale anche per il 1°. Si parla infatti di una terra originariamente “informe e vuota” e il compito di Elohim è stato appunto quello di darle forma (cosmos vs caos). Mi sembra buffo pensare a un Dio che crea dapprima una Terra informe per poi darle forma! Del resto sappiamo che la Bibbia non insegna affatto la creatio ex-nihilo. Questa è un’invenzione di S. Agostino basata presumibilmente su un passo del II Maccabei (7:28), un testo deuterocanonico (apocrifo per i Protestanti).
Creazione dal nulla è un concetto filosofico estraneo al pensiero semitico delle origini, che non conosce il nulla né l’infinito. Però se leggiamo il primo verso della Genesi alla maniera tradizionale (In principio Elohim creò il cielo e la terra), e il secondo come una conseguenza del primo, allora sì, Dio appare come il creatore del tutto, un tutto inizialmente indistinto che poi viene progressivamente ordinato. Ma ammetto che su questo punto ci sono anche altre letture possibili.
Forse non è “Tohu” a essere imparentato con “Tiamat” bensì “Tehom” (abisso), altro termine che compare in Genesi 1:2. Tehom è proprio la “versione ebraica” di Tiamat, che termina con T solo perché è un nome femminile, altrimenti sarebbe ancora più vicino a Tehom.
I draghi di Enuma Elish non sono rievocati dal serpente di Genesi 3 (che forse rievoca invece la storia di Gilgamesh), ma dai serpenti marini di Genesi 1, i tanninim gedollim creati nel quinto giorno insieme ai pesci e ai volatili. Solo che in Genesi 1 è tutto pacifico, tutto demitologizzato, non ci sono guerre divine.
Il libro comunque si intitola “La tua voce ho udito – Viaggio nel Libro della Genesi” e compare nella barra laterale qui sul sito.
OK, ti ringrazio per il titolo del libro.
Riguardo alla eco biblica di Tiamat hai ragione, mi sono sbagliato. Intendevo proprio Tehom che forse ha anche il significato di “oceano”, o comunque di qualcosa che si agita come un mare in tempesta: una sorta di caos, insomma (purtroppo, come ti dicevo, sono via e non ho con me i testi specifici).
Per non appesantire ulteriormente questo blog ti chiederei, d’ora in poi, se puoi scrivermi sull’indirizzo di posta col quale mi sono registrato. Grazie.
Non è un problema scrivere sul blog, altri utenti potrebbero trovare interessanti i discorsi che vengono fuori. Tuttavia sarebbe meglio commentare sotto gli articoli pertinenti a ciò di cui discutiamo.
Caro redattore,
ho tentato, ma inutilmente, di pubblicare qui un mio commento. Compare ogni volta la seguente dicitura:
“identificato un commento duplicato; sembra che tu abbia già scritto questo commento.”
Si può risolvere?
Prova a inviarlo cliccando su “rispondi” a questo mio commento.
Non è cambiato niente, e ora il mio indirizzo e il mio nome appaiono pure cancellati.
Date le difficoltà che sto riscontrando nella pubblicazione del mio commento, proverò ora a inviarlo separato in due commenti consequenziali.
Niente da fare. Caro redattore, il tuo blog accetta tutti questi miei brevi commenti di avviso, ma rifiuta quello pertinente al tuo articolo. Fa quasi pensare che ne sia allergico.
Molto strano. Prova a dividerlo in più commenti.
L’ho diviso in dieci spezzoni, ho cominciato con il primo di appena quattro righi, ma non lo pubblica. Non ci sono dubbi: è proprio allergia.
A mio parere c’è una stretta correlazione fra il passo di Levitico 27:29 e il voto di Iefte, essendo il primo la norma (sui sacrifici umani) e il secondo un esempio di applicazione della stessa. Ciò si potrebbe evincere dalla circostanza che Iefte si stracciò le vesti quando scoprì che era sua figlia la persona che gli toccava immolare e che non poteva rimangiarsi quella promessa.
Se si accetta la tesi che egli fosse null’altro che un debosciato, il tipico esponente di quell’epoca in cui “ciascuno faceva quel che gli pareva”; che fosse un individuo talmente grezzo e confuso da offrire un sacrificio umano proprio a un dio che aborre e vieta i sacrifici umani; se, dunque, accettiamo questa immagine di Iefte, apparirebbe incongruente il suo rigore nel voler assolvere un voto che gli si era prospettato all’improvviso del tutto sconveniente per lui. Si deve considerare che, perdendo sua figlia unigenita, egli perdeva anche la possibilità di avere una discendenza. E si sa che gli israeliti, non credendo nell’aldilà, vedevano nella propria discendenza la perpetuazione della loro vita oltre la morte.
Se Iefte fosse stato un poco di buono, arruffone e superficiale oltre che ignorante riguardo alla religione, avrebbe di certo trovato il modo di deviare immolando qualcun altro (il che dopotutto era stato nelle sue intenzioni) al posto della figlia.
Sarebbe forse il caso di rivisitare l’immagine di questo personaggio, magari ponendo attenzione ai versi dal 14 al 27 di Giudici 11, dove, contrariamente al quadro di prima, egli mostra di essere piuttosto un fine e profondo conoscitore della storia e delle leggi d’Israele. Di tali leggi, ci sarebbe questa che poteva aver provocato la sua disperazione quando vide sua figlia:
28 Nondimeno, tutto ciò che uno avrà consacrato al SIGNORE per voto d’interdetto, fra le cose che gli appartengono, si tratti di una persona, di un animale o di un pezzo di terra del suo patrimonio, non potrà essere né venduto, né riscattato; ogni interdetto è cosa interamente consacrata al Signore.
29 Nessuna persona consacrata per voto di interdetto potrà essere riscattata; dovrà essere messa a morte. (Levitico 27:28-29, Nuova Riveduta).
Questo brano, che in molte traduzioni comincia con la congiunzione avversativa “nondimeno”, è contenuto nel capitolo 27 del Levitico; il quale capitolo tratta unicamente delle diverse modalità per il riscatto delle donazioni fatte dai fedeli al santuario. Ciò che l’offerente aveva dato ai sacerdoti per un voto poteva essergli restituito a condizione che pagasse loro una determinata somma di denaro, vale a dire un riscatto. Il brano sopra riportato specifica che tale regola presenta un’eccezione, un “ma”:
qualora il fedele avesse posto l’interdetto, o CHEREM, sulla cosa, animale o persona che aveva donato, non gli era più possibile avvalersi della possibilità del riscatto. Ciò che era stato consacrato con voto d’interdetto era sottratto per sempre all’uso umano, e quindi non si sarebbe potuto riscattare e, cosa importante, non si sarebbe potuto vendere.
Chi poteva vendere una donazione? Evidentemente i sacerdoti.
Dato che questi vivevano delle offerte dei fedeli, offerte che spesso consistevano in bestiame, è chiaro che bovini, capre e pecore in sovrabbondanza erano venduti. Ma tale vendita non era possibile se il bene donato era consacrato ad HaShem con voto d’interdetto. Sarebbe stato però troppo oneroso per il santuario, che peraltro era il solo legittimo in tutto Israele, mantenere vita natural durante mandrie e greggi e anche persone divenute sacre con quel tipo di voto. Una soluzione assai più economica, a questo punto, doveva essere il rituale dell’olocausto. Con l’olocausto le offerte, poiché venivano incenerite, non erano fruite né dai fedeli né dai sacerdoti ma unicamente da HaShem, che gradiva molto l’odore della carne bruciata, come è rivelato in Genesi 8:20-21. Così acquisterebbe un senso la postilla finale, al verso 29, del brano in argomento:
«29 Nessuna persona consacrata per voto di interdetto potrà essere riscattata; dovrà essere messa a morte.»
Iefte aveva offerto in OLOCAUSTO la prima persona della sua casa che gli fosse andata incontro: questo suo voto è contemplato nel verso 28 del suddetto brano. E poiché egli non poté tornare sui suoi passi, ciò evidentemente avvenne perché egli volle ottemperare a ciò che stabilisce di seguito il verso 29.
Si dovrebbe dedurre perciò che la Torah ammette i sacrifici umani?
Di sicuro il passo di Levitico 27:28-29 ha indotto molti teologi e traduttori a gettare una cortina fumogena su detti versi con l’uso molto disinvolto della sintassi; non a caso io ho scelto di riportare più sopra la traduzione della Nuova Riveduta, e sarebbero andate bene anche le antiche Riveduta, Martini e Diodati, versioni i cui traduttori non erano ancora smaliziati.
L’odierna CEI e la Nuova Diodati usano invece la locuzione “voto di sterminio”, l’Edizione Paoline “voto d’anatema”, la TNM “voto di distruzione”.
STERMINIO; è ovvio che questo termine non vale per le cose inanimate; infatti non si stermina un pezzo di terra. Inoltre non si usa per singoli individui: non si stermina un bue o una persona ma una mandria o una collettività.
VOTARE; il vocabolario Treccani dà questa definizione “Consacrare alla divinità formulando un voto”.
L’espressione “voto di sterminio” (nell’ambito del capitolo di carattere religioso che stiamo esaminando) dovrebbe dunque significare:
formulare un voto consacrando alla divinità un… massacro!
Tuttavia tale espressione, per quanto sgangherata nella forma italiana, si allaccia ai numerosi comandi biblici di sterminio (esposti in altre pagine del Tanakh) delle popolazioni pagane. Questa traduzione dà agio di affermare che la norma suddetta di Levitico 27 si riferisce:
NON al fedele che intende sacrificare una persona (coerentemente col tema del capitolo),
MA, come il classico cavolo a merenda, a una autorità che decreta l’annientamento di popolazioni idolatre.
Altri esegeti sostengono, sempre a proposito di cavoli fuori luogo, che il soggetto del verso 29 è il tribunale che condanna a morte un reo. Una tesi, questa, poco convincente dato che di solito i criminali vengono CONDANNATI, NON CONSACRATI.
Del resto il divieto di riscattare un omicida è presente in un’altra sezione della Torah, dove il tema è specificamente quello giudiziario (Numeri 35:31).
C’è anzi da dire che questi giri tortuosi fanno apparire lo scrittore biblico un semi analfabeta incapace di esprimersi. Infatti, dato che al verso 28 il soggetto che pone il CHEREM è il fedele, al verso 29, poiché qui il soggetto non è nominato, si dovrebbe intendere che esso sia il medesimo della frase precedente, cioè ancora il fedele.
Se davvero l’autore avesse voluto riferirsi a un soggetto diverso, appartenente per di più a un altro contesto molto diverso, ossia non più quello religioso di cui si occupa l’intero capitolo, bensì quello giudiziario o militare, avrebbe dovuto menzionarlo per farsi capire; a maggior ragione trattandosi di regole che, in quanto tali, non devono dare adito a fraintendimenti.
Caro Franco, alias Marco. Ein kol chadash tachat hashemesh: “Niente di nuovo sotto il sole”. Abbiamo già discusso di questi stessi temi e ho già spiegato dettagliatamente perché la tua lettura non è coerente con il testo ebraico (forse lo è con la Nuova Riveduta, la CEI e altre discutibili edizioni disponibili online). Tuttavia, poiché nonostante ciò apprezzo i tuoi interventi, ti dedicherò (bli neder) un nuovo articolo rispondendo con ordine alle tue affermazioni. Dico bli neder (“senza voto”) perché poi se non dovessi farlo davvero sarebbero guai, sappiamo che i voti una volta fatti non si possono annullare.